Pierdante Piccioni la sintetizza così: «Se mi fossi incontrato non mi sarei riconosciuto». Il 31 maggio del 2013 è un medico in carriera: primario al pronto soccorso di Lodi, esperto accreditato del Ministero, professore alla Scuola di specialità di Pavia, cofondatore di una società scientifica internazionale. Ha 53 anni. Quel giorno di tre anni fa, un venerdì, ha un incidente. Rimane in coma «pochissime ore». Si risveglia, gli esami sembrano indicare che sia tutto a posto. Però quando vede entrare sua moglie Assunta, Kunta per lui, è un po' strano: ha le rughe, i capelli corti e di un colore diverso; gli occhi sono uguali, ma sembra più vecchia. Il fatto è che, per Pierdante Piccioni, il mondo è fermo al 25 ottobre 2001, il giorno del compleanno del figlio più piccolo: lui ricorda di averlo appena portato a scuola coi pasticcini per festeggiare i suoi otto anni, prima di andare al lavoro, all'ospedale di Crema.Tecnicamente, quella di Piccioni si chiama «amnesia retrograda parziale post traumatica»: nella realtà significa che nella sua memoria c'è un buco di dodici anni. In quell'arco di tempo, fra il 25 ottobre 2001 e il 31 maggio 2013, non esiste più nulla: ricordi, emozioni, esperienze, dolori, felicità, perdite, carriera. Piccioni si sente «un marziano, isolato ed estraneo» a un mondo che non è il suo, a partire da quel telefono che bisogna toccare sullo schermo e da quell'iPad che usa il suo vicino di letto, nella Stroke Unit dell'ospedale di Pavia. Dice: «Ero come l'Indio dell'Amazzonia che arriva a Times square». Era, perché oggi Piccioni è contento: «Sto bene, mi sento molto più integrato in questo mondo nuovo». Fa ironia e autoironia, riesce a prendere alla leggera la sua rabbia e le sue sofferenze e a raccontarle, come ha fatto in un libro, che s'intitola Meno dodici (scritto con Pierangelo Sapegno, è stato da poco pubblicato da Mondadori, pagg. 350, euro 20). Però all'inizio, e per tanti mesi, non è stato così. Anzi, è andata sempre peggio. C'era un po' di paralisi alla parte destra; c'era quest'insistenza a ripetergli che non era il 25 ottobre del 2001, per cui dubitava perfino di potersi fidare di qualcuno; c'era la moglie un po' diversa da prima, va bene; c'era tutta una serie di promozioni e cariche e impegni nel mondo medico che gli risultava incredibile; ma c'erano soprattutto i suoi figli, i suoi «bambini».Ecco, i «bambini», Filippo e Tommaso vanno a trovarlo e si trova davanti due ragazzoni con la barba, che frequentano (più o meno...) l'università e parlano così: «Bella, Savio! Figa, oggi ti vedo proprio in forma» (l'hanno soprannominato «Savio»). «Quelli non erano i miei bambini: io li volevo uccidere per riavere indietro i miei piccoli da coccolare, la mia famiglia idilliaca che ricordavo. Per mesi sono andato all'uscita della scuola elementare ad aspettarli. Sapevo che non sarebbero usciti, ma il fatto è che io volevo vivere lì, in quel passato remoto, perché era dove mi sentivo bene».Il resto, il mondo «vero», «non lo accettavo, e lui non accettava me». Era, dice, «una spirale al ribasso». Dove andava tutto male. Per esempio, dov'erano la mamma e il papà, mentre lui era in ospedale? Il papà, gli spiegano, è malato. La mamma... La mamma è morta, e lui non se lo ricorda. «Ero arrabbiato con lei: non sapevo più che cosa mi avesse detto prima di morire, poi mi avevano raccontato che anche lei, gli ultimi mesi, non ricordava più nulla. E io pensavo: ti sta bene, adesso io non mi ricordo di te. Sono andato sulla sua tomba e lì, ecco, penso di essere uno dei pochi ad avere vissuto il lutto di sua madre due volte. Razionalmente, una cosa impossibile».Non è finita. Muore il papà. Muore il suo confessore, da cui sperava di «recuperare» i ricordi: se aveva tradito Kunta, per dire, come poteva saperlo? A lui l'aveva certamente detto. Al lavoro, dove vuole tornare con tenacia e disperazione («ho ricominciato subito a studiare medicina, perché è la mia passione: ed è stata la leva per mantenere il contatto con la realtà»), gli propongono una pensione di invalidità. I suoi «bambini» (non quei figli, il Serpente e il Gorilla, uno frequentatore di feste dove lo chiamano Gatsby e l'altro di palestre) non ci sono più. Alla moglie Kunta è stata trovata una quarta recidiva del linfoma che l'ha colpita in quei dodici anni che lui non ricorda. «Fra le ipotesi realistiche c'era quella di farla finita». Poi ha scelto diversamente. «E da lì è cominciato il recupero, anche grazie alla musica di Guccini... La svolta mentale è stata quando ho smesso di voler vivere nel 2001 e ho deciso che dovevo vivere nel 2014». Non ci è riuscito da solo. «La chiave di volta è la famiglia, ma non quella idealizzata del 2001. La mia è una storia famigliare, del mio paese, Levata, nel Cremonese, del suo cimitero, della sua chiesa, dei suoi vecchi. Ho dovuto riscoprire il futuro coi ricordi rimasti». Ce l'ha fatta. Non a livello di emozioni: quelle, quelle dei dodici anni di buco, sono perse per sempre. Ma a livello professionale la rincorsa ha funzionato, quasi miracolosamente: «È stata proprio la tecnologia, che all'inizio mi innervosiva, ad aiutarmi. Per esempio, mi sono fatto recuperare le email di sette anni, cioè da quando avevo iniziato a usarle; e ogni giorno le leggevo, per due ore. Alla fine ne ho lette oltre venticinquemila». Il suo terapeuta era «affascinato»: «Bevevo tutte le informazioni e le novità, le cercavo, ero stupito. Mia moglie mi diceva: Non fare il tonto».Oggi è tornato a fare il primario di Pronto soccorso all'ospedale di Codogno. «Però adesso ragiono prima da paziente che da medico, perché so che cosa vuole dire. E per me è un valore aggiunto, ci tengo molto». Non è stato facile recuperare il posto, «non per la malafede dei colleghi» ma perché, dice, «la burocrazia è la strada più comoda: ecco, se fossi su twitter, io mi identificherei nell'hashtag iononsonoilmioreferto: io sono la persona che ha la malattia, non la malattia. E questo libro, beh, l'ho scritto innanzitutto per egoismo, per capire quanto e come mi resta da vivere, e per dire a tutti: io sono questo disabile qui». Le sue lesioni nelle «regioni nobili» della corteccia sono emerse solo sei mesi dopo l'incidente.
«La scienza non spiega la correlazione fra entità del trauma e gravità dell'amnesia: non sono proporzionali. La memoria a lungo termine rimane un mistero». A Pierdante Piccioni, in pochissime ore, sono sfuggiti dodici anni di vita. «Mi sono perso, fede compresa, e mi sono ritrovato. Oggi per me c'è di nuovo una normalità».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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