È un abile manipolatore di parole, Marcello Fois, sardo nel midollo ma bolognese d'adozione. Lo conobbi nell'edizione del Noir in Festival che gli attribuì il Premio Scerbanenco per Sempre caro, un romanzo che ha segnato a tal punto la sua carriera da ispirargli questo suo saggio, quasi un'autobiografia letteraria: La mia Babele (Solferino, pagg. 640, euro 22). Dai primi passi nella sua Sardegna, raro figlio unico di una famiglia che tale condizione non la contemplava e nemmeno la comprendeva, Fois ha sempre mostrato la propensione a scavarsi un solco personale nella vita tanto quanto nella letteratura. Capoccia dura, da buon isolano, si potrebbe dire, ma chi la dura la vince e la costanza ha premiato i suoi sforzi: oggi Marcello Fois è uno degli autori italiani più stimati e tradotti all'estero.
La traduzione letteraria è una traduzione letterale?
«C'è in questa assonanza l'assunzione di una responsabilità altissima: trasportare un testo da una lingua all'altra e da un territorio all'altro, da un punto di vista all'altro. Esistono testi resistenti e testi docili. Un testo ben scritto è come un viaggiatore che si sposta altrove e il suo traduttore è come una guida competente. Ho sempre pensato che Virgilio sia uno dei più importanti traduttori della cultura occidentale. Che nel suo rapporto con Dante si esprima la dimostrazione plastica di ciò che ritengo debbano essere una buona traduzione e un buon traduttore».
È mai incappato in un mostro generato dalla traduzione di un suo libro?
«Trattandosi di romanzi ambientati per lo più in Sardegna, talvolta si è cercato di trasportare, enfatizzare o persino innestare nelle mie storie un gusto kitsch, una passione folk, un luogo comune antropologico che trovo fastidioso e dozzinale. In quei casi mi oppongo fermamente e spiego al traduttore che deve accompagnare il testo, non esercitare il proprio pregiudizio. Ritengo il traduttore un coautore quindi mi sento autorizzato a rispettare le sue istanze, quando supportate, in rapporto al testo, allo stile, alla filosofia, alla trama, alla necessità di comprensibilità in un altro Paese; non certo in base a una non precisata passione per l'esotismo rustico».
Com'è interloquire con un traduttore come l'inglese Patrick Creagh, poco incline a piegare i propri integralismi alle esigenze dell'autore?
«Patrick Creagh è stato più di un traduttore. Incontrarlo è stato un privilegio. Ci siamo confrontati, non sempre siamo stati d'accordo, tuttavia sarei stato disposto a lavorare comunque con lui. Il nostro dibattito serrato è stato molto formativo per me. Creagh mi ha davvero aiutato a percepire il bene e il male che si può trasmettere, volontariamente o involontariamente, con un testo. Mi ha incoraggiato a esercitare il meglio della mia scrittura con un'attenzione sempre più precisa. La vera dislessia tra noi è stata che io all'inizio pendevo dalle sue labbra e questo non deve mai succedere tra coautori».
La stizzirebbe sapere che un editore è intervenuto per modificare il suo tono?
«Il tono è una faccenda delicatissima, forse addirittura più delicata della trasmissione esatta del contenuto. La buona scrittura contiene un messaggio e un tono.
A volte una frase vuol dire esattamente il contrario di quello che dice. Se il traduttore non ha l'orecchio allenato può semplicemente tradurre bene senza il tono, senza la nota. In questi casi io preferisco un significato mediato, ma il tono giusto. Certo, meglio tutti e due azzeccati».
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