Una volta, nelle redazioni dei giornali, potevano accadere fatti strani. Anche di incontrare grandi giornalisti.
La prima volta che incontrai in redazione Mario Cervi, grande giornalista e persona adorabile, era proprio il giorno in cui si dimetteva da direttore del Giornale. Era il 25 marzo 2001: Cervi, che aveva retto il quotidiano nel vuoto di potere provocato dall'uscita di Vittorio Feltri, lasciava a Maurizio Belpietro i pieni poteri, riservandosi il ruolo di editorialista. Io, invece, al Giornale ero appena entrato, assunto da sole tre settimane. Cervi quel 25 marzo compiva 80 anni. Aveva salito, con coerenza e senza presunzione, tutti i gradini della professione: reporter, cronista, inviato, commentatore, direttore. Io ne avevo 30 ed ero fermo al primo gradino, più o meno dove sono oggi.
Comunque, a proposito del giorno della staffetta Cervi-Belpietro. Forse è un caso, o forse la memoria selettiva con il tempo ha imparato a funzionare secondo la consuetudine giornalistica che sceglie non i ricordi più veri ma quelli più romanzeschi, sta di fatto che il mio personalissimo album fotografico della giornata ha archiviato l'immagine di un distinto signore avanti con gli anni, capelli d'argento e una montatura degli occhiali leggermente più pesante di quanto la moda è disposta a concedere, che con un velo di commozione negli occhi stringeva la mano, in un simbolico passaggio delle consegne, a un uomo molto più giovane, sebbene con i capelli già dello stesso colore. Fra i due giornalisti quello più soddisfatto, innegabilmente, era il secondo.
Il secondo, Belpietro, mi assunse. Il primo, Cervi, sarebbe diventato il mio maestro. Semel abbas, semper abbas. Una volta direttore, lo resti tutta la vita. E per tutta la vita ho continuato io, e con me tutti i giovani del Giornale, quelli che hanno cominciato il mestiere sui computer e non sulle macchine per scrivere - a chiamare Mario Cervi «direttore».
Che poi. Lo ammetteva lui stesso: quello di direttore - carica che pure ricoprì con coerenza rispetto alla linea editoriale, con fedeltà all'eredità montanelliana e con un'esemplare capacità di equilibrio - non era il suo ruolo. A Cervi, lo sa chi lo conosceva bene, interessava il mestiere: andare a vedere le cose, scrivere, raccontare. Non la cucina e le grane operative, ma portare a casa il pezzo. Dava la caccia alle notizie, meno ai posti di potere. Anche se quando serviva sapeva, eccome, comandare. Del resto fu ufficiale durante la Seconda guerra mondiale, in Grecia. Paese cui lo legava una profonda cultura classica, la moglie - la sua bella ragazza greca - e le vacanze. Ancora ben oltre i 70 anni faceva sci nautico lungo le coste dell'Eubea. Capite che poi duellare con magistrati, politici e colleghi giornalisti, per lui era una passeggiata.
Non lo fu invece il passaggio dal Corriere, dove era rimasto trent'anni, al nuovo foglio fondato da Indro Montanelli nel '74, perché il percorso fra via Solferino e piazza Cavour, prima sede del Giornale, è parecchio accidentato, e si può percorrere solo in un senso, mai in quello inverso (Montanelli escluso naturalmente). Cervi era uno dei gioielli di famiglia del Corriere. Là era una firma. Inviato. Grandi processi - nella Giudiziaria iniziò come vice di Dino Buzzati, per dire - e Esteri: guerra di Suez, golpe dei Colonnelli in Grecia, quello di Pinochet in Cile, cose così. Ma alla fine, quando Montanelli e gli altri fondatori, in quell'estate di caldo e di piombo, glielo chiesero, disse «Sì». Da corrierista a 24 carati divenne la bandiera del nostro Giornale.
Grazie.
Sono tanti i grazie che dobbiamo a Mario Cervi. Soprattutto quello di aver dimostrato, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo - mezzo toscano fra le labbra, visione completa delle cose in testa - che si può fare un ottimo giornalismo «di battaglia», controcorrente, d'opposizione, fuori dal coro - chiamiamolo come vogliamo - senza per forza strafare, senza sprofondare nella volgarità ma surfando sull'ironia, senza diventare feroci ma rimanendo composti, senza caricare a testa bassa ma scartando di lato. Usando il fioretto, evitando il bastone. Mario Cervi anche nello scrivere era un gentleman. Pacato, rifletteva prima di scrivere. Garbato, pungeva con affetto. Moderato, evitava la polemica per la polemica.
Mario Cervi, che amava il bridge, le automobili, il tennis e l'Ispettore Derrick, telefilm che come tutti i prodotti tedeschi non era elegante dal punto di vista estetico ma inappuntabile da quello logico (e qualcosa vorrà pur dire se piaceva così tanto a lui e a Montanelli), non era un giornalista da tifoseria e da polemiche. Ma di analisi. Non da ritratto velenoso, ma da profilo in chiaroscuro. Non da editoriale: che è come correre i cento metri in apnea, 50 righe di colpo, senza distinguo o sfumature, o è bianco o è nero: serve a convincere il lettore. Ma da approfondimento: che è come fare una passeggiata per riflettere, 100 righe meditate, vagliando diverse ipotesi, perché la vita spesso è fatta di grigio: utile per far riflettere il lettore.
Poi, certo. Cervi era straordinario nei reportage, precisissimo nelle interviste (gente come Indira Gandhi o Lech Walesa, peraltro), imbattibile nei pezzi storici (i dodici libri della Storia d'Italia scritti con Montanelli erano la sua personalissima Wikipedia), strepitoso nei profili (si legga quello di Dario Fo, ad esempio, o di Pietro Ingrao...). Giornalismo di altissima qualità.
Le qualità del direttore Cervi non erano poche. Averle. Al di là dello stile, era molto veloce. Ricordo che io stesso, più volte, a ore non semplici, tipo le 19, o le 20, gli abbia telefonato a casa per chiedergli pezzi non meno complicati. Arrivavano dopo un'ora. Perfetti. Poi, essendo lettore straordinario di giornali e di libri, raramente c'era un argomento che non conoscesse. E aveva una memoria strepitosa: io devo andare su Google anche per ricordarmi in che anni l'Italia ha vinto i Mondiali di calcio; Cervi sapeva anche le date di nascita e morte del presidente del Consiglio che presenziava alla finale. Dei grandi eventi e personaggi del '900, da Giolitti a Berlusconi, dal fascismo all'Euro, sapeva fatti, antefatti, aneddoti e citazioni. E poi possedeva un dono di cui i grandi commentatori non possono fare a meno. Che non è quello di avere un'idea chiara su tutto, sempre; ma quello di metterci cinque minuti, quando serve a scrivere un articolo, per farsela. Si chiama giornalismo.
Per il resto, Mario Cervi - grammatica
ineccepibile, prosa pulita, ragionamento limpido - non era solo un grande giornalista. Il che sarebbe già abbastanza. Mario Cervi era una persona per bene. E questa, nel giornalismo, è una cosa ancora più preziosa della bravura.
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