Un verso del poeta greco Archiloco dice: «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande». Karl Marx fu senz'altro un riccio. Ma che cosa sapeva di così grande? Lo si può scoprire leggendo l'ultimo libro di Isaiah Berlin (1909-1997) pubblicato ora da Adelphi a cura di Henry Hardy: Karl Marx (pagg. 309, euro 28).
Iniziamo col dire che, in realtà, si tratta del primo e anche dell'ultimo libro di quel grande pensatore liberale che fu il filosofo di Riga e di Oxford: il primo perché fu il primo che in ordine di tempo scrisse e pubblicò, e l'ultimo perché poi sir Isaiah non concepì più libri compiuti e monografie ma soltanto saggi sparsi, conversazioni, conferenze, interviste che, successivamente rielaborati e sistemati, soprattutto grazie alla cura di Henry Hardy, hanno visto la luce in testi che, presi tutti insieme, costituiscono oggi un mirabile patrimonio di idee e di intuizioni del pensiero del pluralismo liberale. L'opera di Berlin è così tanto legata alla «oralità dialettica, come avrebbe detto Giovanni Reale, che non è casuale che si sia parlato di lui come di una sorta di Socrate del Ventesimo secolo.
La biografia intellettuale di Marx scritta da Berlin è importante in un duplice senso: primo, perché è un testo che, scritto negli anni Trenta del secolo scorso, getta uno sguardo laico su un pensatore venerato come un santo; secondo, perché quando Berlin si accostò a Marx ne sapeva poco o nulla e conoscendolo conobbe meglio anche sé stesso. Vi sono dunque oggi due ottimi motivi per leggere o rileggere - vi sono edizioni precedenti presso La Nuova Italia, Rizzoli, Sansoni - questo testo: uno per conoscere un Marx senza i dogmi del marxismo, e l'altro per far la conoscenza del giovane Berlin.
Isaiah Berlin ritiene che in Marx, come dirà in una conversazione, vi sono «solo tre idee veramente originali». Quali? Eccole: l'influenza della tecnologia sulla cultura; l'importanza del grande capitale; e, dulcis in fundo, la lotta di classe. Ma queste idee di Marx sono ricondotte da Berlin al tempo ereditato e vissuto da Marx, ossia al suo tempo. In modo tale che il mito marxista del romantico genio assoluto che crea da sé, quasi come un parto di Giove, mezzi, strumenti, idee utili a capire la società e a trasformarla o a traghettarla verso un'altra e più giusta e migliore e addirittura necessaria società socialista, ne risulta ridimensionato, giacché quelle idee vengono rintracciate in altri uomini e pensatori precedenti, come Henri de Saint-Simon, Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, negli illuministi scozzesi e anche in Alexis de Tocqueville e in Friedrich List e tanti altri.
Insomma, l'operazione che fa Berlin è quella di liberare Marx dal marxismo e dai marxisti esaudendo, forse, quello che fu anche l'intimo desiderio dello stesso autore del Manifesto del partito comunista quando disse: «Ich kann nur eins sagen, dass ich kein marxist bin!», ossia «solo una cosa posso dire e cioè che io non sono, in nessun modo, marxista». Possibile?
Nonostante Berlin riconduca l'importanza di Marx alle tre idee sopra indicate - tecnologia, capitale, lotta di classe - è indubbio che nel libro vi sia anche una quarta idea o, se si vuole, l'idea con la quale Berlin interpreta Marx o, meglio ancora, ciò che Berlin vede all'opera in Marx: la filosofia della storia. Dice con chiarezza Berlin: «Marx condanna l'ordinamento vigente sulla base non di astratti ideali, bensì della concreta esperienza storica: non lo stigmatizza come ingiusto, deplorevole, o emanante dalla malvagità o dalla stoltezza umane ma in quanto deriva da leggi di evoluzione sociale per le quali è inevitabile che, a una certa fase della storia, una classe che persegua i propri interessi con gradi diversi di razionalità espropri e sfrutti l'altra e in tal modo porti all'oppressione e all'assoggettamento dell'uomo sull'uomo». Questo modo di conoscere o di pretendere di conoscere il passato, il presente e il futuro fa di Marx a tutti gli effetti un riccio, ossia un monista che ritiene di avere in mano nientemeno che le leggi necessarie dell'evoluzione storica che, appunto, una volta conosciute non possono non essere applicate e realizzate per il bene dell'umanità.
Qui vi è la radice del male totalitario del Novecento. Il lettore che ha una conoscenza del pensiero di Berlin vi potrà scorgere lo sviluppo del suo liberalismo e, al contempo, potrà apprezzare un'intelligente e laica interpretazione del marxismo di Marx che Berlin cerca pur sempre di rendere il più possibile critica e aperta, rinvenendo in Marx non soltanto il filosofo della storia che si fa politico, ma anche il sociologo, l'economista, lo storico. Quasi come se in Marx - come ha notato Bruno Bongiovanni - ci fossero insieme il riccio e la volpe. Ma qui siamo già nel campo delle ipotesi e del gioco ermeneutico. Invece, ciò che sappiamo è che Berlin, nel suo splendido saggio del 1951 che è uno studio su Tolstoj e il senso della storia, non cita Marx. Per lui i ricci sono Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust; e volpi sono Shakespeare, Erodoto, Aristotele, Montaigne, Erasmo, Molière, Goethe, Pukin, Balzac, Joyce.
Berlin si fida istintivamente delle volpi, ma avverte il fascino dei ricci che con quell'unica cosa che sanno si difendono dalle molte astuzie
delle volpi. Ma in quell'elenco di ricci non c'è il riccio Marx, perché quell'unica cosa che sapeva - la fine della borghesia e la nascita della società giusta del socialismo scientifico - negava totalitariamente la libertà.
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