Una diagnosi perfetta dei difficili rapporti tra letteratura e scienza la presentò il fisico Charles Percy Snow in un libro che è diventato un classico, intitolato Le due culture e pubblicato nel 1959, proprio un secolo dopo la pubblicazione de L'origine delle specie di Charles Darwin. Infatti fu proprio Darwin e la sua straordinaria scoperta a determinare la frattura definitiva tra umanisti e scienziati. Per pigrizia degli umanisti, aggiungerei io: le cose si erano fatte troppo complicate.
Da allora a oggi ignorare la scienza è diventato quasi un vanto dei letterati, sebbene i grandi scrittori, da Flaubert a Proust, non hanno mai smesso di ritenere la cultura scientifica centrale per capire l'essere umano. Tra i contemporanei, uno straordinario scrittore che ritiene la scienza fondamentale è Ian McEwan, e nel suo nuovo saggio affronta proprio questo tema. Titolo invogliante per i terrorizzati dalle verità scientifiche: Invito alla meraviglia, edito da Einaudi, è poco più di cento pagine ma mette il dito nella piaga, dedicando ampio spazio alla creatività necessaria anche ai geni che hanno cambiato per sempre il mondo moderno, in particolare Charles Darwin e Albert Einstein. Che sono anche le due bestie nere dei letterati. Darwin, perennemente non compreso, al massimo scambiato per un filosofo; quando è alla base della più immane rivoluzione scientifica dell'umanità: la teoria dell'evoluzione. Ormai comprovata da un secolo di ricerche, dalla paleontologia alla genetica alla biologia molecolare. Quell'idea di Darwin ha funzionato tuttavia perché era estremamente seducente anche nella sua formulazione, cioè McEwan considera giustamente Darwin anche un eccellente narratore. Con la differenza che la sua teoria, per diventare quello che è oggi, necessitava di essere provata (mentre nessuno deve provare la verità di quanto affermato nell'Odissea o nella Divina Commedia, ci basta leggere e immaginare).
Stesso discorso per Albert Einstein, con una differenza: la teoria della relatività era incomprensibile agli stessi fisici. Formulata nella sua versione generale nel 1915, fu provata nel 1918, e da quel momento la gravità non è mai più stata semplicemente una forza, come credeva Isaac Newton, ma un effetto della curvatura dello spazio-tempo. Dentro c'era tutto ciò che ha rappresentato il centro delle ricerche dell'ultimo secolo, dall'espansione dell'universo ai buchi neri alle onde gravitazionali.
L'invito alla meraviglia di Ian McEwan è rivolto non solo ai lettori, ma anche agli scrittori, ai letterati che si ostinano a ignorare queste immani scoperte, questi modelli della biologia e della fisica che hanno trovato continue verifiche da parte di tutta la comunità scientifica, e che il senso comune continua a definire «teorie» come fossero ipotesi (complici i soliti letterati, che si sono pure autodefiniti intellettuali, come se Einstein non avesse usato l'intelletto più di Pier Paolo Pasolini o Massimo Cacciari).
E così vedere il mondo attraverso una visione nuova, per quanto non consolatoria come sono invece i miti su cui si regge l'umanesimo culturale. Eppure, rifletteteci: cosa c'è di più affascinante che pensare che il tempo, per esempio, non scorra nello stesso modo nell'universo, ma neppure se siete al mare o in montagna? Che se passaste un'ora intorno a un buco nero, sulla Terra sarebbero passati centinaia di anni? Non è una teoria, non è fantascienza, è un fatto. Senza applicare differenze nella sincronizzazione degli orologi dei satelliti basate sulla relatività non funzionerebbe neppure il GPS del vostro navigatore, incredibile no?
E cosa dire dell'evoluzione, del vedere gli esseri umani come animali tra gli altri animali? Con i fossili e il sequenziamento del DNA che hanno tolto ogni dubbio sulle nostre discendenze, potendo sapere con assoluta certezza che l'antenato in comune tra noi e uno scimpanzé è vissuto cinque milioni di anni fa?
Ian McEwan ci invita anche a riflettere sulle neuroscienze, e sull'importanza che hanno quando parliamo del nostro io. Siamo il nostro cervello, tuttavia «anche identificando il cervello con la mente, rimaniamo sbalorditi all'idea che un io frutto di pura materia abbia saputo descrivere sé stesso, che l'io insomma non sia la causa del pensiero, bensì il suo prodotto». Cartesio si sbagliava, separando il pensiero dalla materia, e anche Jean-Jacques Rousseau, ritenendo l'essere umano corrotto dalla civiltà e elogiando il buon selvaggio (non sorprende che i grillini abbiano chiamato la loro comunità digitale Piattaforma Rousseau e non Piattaforma Darwin o Piattaforma Einstein), perché siamo il prodotto di genetica e culture.
Ma almeno adesso abbiamo di fronte un nuovo umanesimo scientifico, e «possiamo radunarci in massa in luoghi turistici come il Partenone, armati di smarthphone e pronti a scattare selfie; il movimento contemporaneo in difesa della libera identità di genere e di orientamento sessuale dovrebbe garantirci il civile traguardo
comune di permettere che ciascuno sia chi vuole e come vuole; ma alla fine ciascuno di noi è solo una questione dell'io, della pluralità di io, e intanto, non diversamente da Amleto, sfidiamo questa quintessenza di polvere».
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