C'è un equivoco da sfatare sul complesso lavoro di Mimmo Cuticchio, il puparo per definizione, mago che evoca il mondo dei «cantari» dell'estremo sud. Perché a differenza del genere ampiamente documentato degli spettacoli del teatro di marionette, che presentano il mondo del teatro dell'opera miniaturizzato ad arte sulla scorta di superbe edizioni musicali del passato, Cuticchio porta in scena il complesso rapporto tra l'autore in carne ed ossa e la maschera meccanica del suo alter ego: il fantoccio. È quanto accade nel suo capolavoro La pazzia di Orlando, dove lo vediamo emergere dallo spazio buio mentre manovra da maestro, col gesto pacato e sorridente del grande imbonitore, gli strumenti che sul piccolo palcoscenico si agitano, si contraggono e vibrano descrivendo le gesta dei paladini di Francia. È così che si compie il miracolo con i gesti meccanici del puparo che miracolosamente trasformano la materia inerte degli omini di stoffa e di metallo in presenza viva che ci provoca con lo sguardo fisso che le bellissime luci di scena tramutano in abbacinanti bagliori. Che ci fanno tremare e ammutolire come se ci trovassimo all'improvviso di fronte al mito della Supermarionet- ta. Sì, proprio quella immaginata da Kleist, quando ne auspicava l'intervento su una scena divenuta immagine del sogno di tutta l'umanità.
In un risultato di sovrumana forza poetica, che fa di Cuticchio l'araldo di un mirabile gioco scenico. Quello che ha bisogno di un eccentrico animatore che tramuti il fantoccio nell'immagine poetica dell'animale uomo.LA PAZZIA DI ORLANDO- Milano, Teatro Gerolamo.
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