C'è il mistero totale sugli ultimi cinque episodi della parte quinta dell'ultima stagione di La casa di carta, la serie spagnola di Netflix più vista al mondo prima della comparsa di Squid Game che, peraltro, ne ha rielaborato talune idee visive. Siamo ancora e sempre all'interno della Banca di Spagna dove il nemico è in agguato, ferito, ma pericoloso come sempre. Tokyo (Úrsula Corberó) è morta. La banda è chiamata ad affrontare la sfida più grande escogitando un audace piano per ottenere l'oro senza che nessuno se ne accorga. A peggiorare le cose, il Professore commette l'errore più grande della sua vita.
Queste le poche note di produzione diramate da Netflix che vuole ovviamente mantenere l'attesa più alta che si può, i ragazzi direbbero l'«hype», su come andranno le cose in questi cinque episodi, in streaming dal 3 dicembre, definiti tutti «finali» forse per dare ancora maggiore enfasi e forza a ognuno di essi, in attesa - sperano i fan - di un film o di uno spin-off di qualche personaggio.
La piattaforma, con oltre 214 milioni di abbonati in oltre 190 paesi, ha quindi spedito ieri nella Capitale tre degli attori protagonisti con la consegna del silenzio sui prossimi snodi narrativi. Ciononostante la conversazione con Enrique Arce, nella serie Arturo il direttore in ostaggio della Fábrica Nacional de Moneda y Timbre de España, Belèn Cuesta alias Manila, una persona transessuale infiltrata dalla banda per sapere tutto ciò che succede tra gli ostaggi e Pedro Alonso che è Berlìn, ladro gentiluomo di gioielli messo dal Professore al comando della rapina e sacrificatosi per i compagni alla fine della parte 2, fa capire che ci saranno i botti per la gioia dei tanti appassionati: «L'idea - dice Belèn Cuesta che nel 2019 ha vinto il Premio Goya come migliore attrice per il film La trincea infinita disponibile su Netflix - era di mettere tutta la carne al fuoco con la messa in scena di una vera e propria guerra con ancora più azione senza però trascurare la parte emotiva e sensibile che la serie ha».
Sulla stessa linea Pedro Alonso: «Io sono morto e quindi come personaggio non mi capita di stare vicino ai miei colleghi che ho visto soffrire perché hanno lavorato tantissimo. La scommessa di questa ultima stagione infatti è ambiziosa, si tratta di mettersi alla prova da un punto di vista tecnico in sequenze belliche. Neanche io ho visto gli ultimi cinque episodi e so che non bisogna fare tanto affidamento sulla sceneggiatura perché il creatore, Álex Pina, riscrive spesso al montaggio la serie e ti capita di scoprire cose nuove».
E mentre Enrique Arce assicura che con la chiusura della serie tutti i pezzi di questo incredibile puzzle, composto da 41 episodi, andranno al loro posto, allo stesso tempo ci tiene a mettere i puntini sulle differenze con Squid Game, l'altro campione di ore di visualizzazione secondo i nuovi parametri di cui Netflix s'è dotata: «È vero, Squid Game ha praticamente doppiato La casa di carta ma è una serie all'opposto della nostra, è una serie fascista mentre la nostra è antisistema».
Per la precisione, e per capirci, Squid Game è prima con un miliardo e 650 milioni di ore viste negli ultimi 28 giorni mentre la quinta parte di La casa di carta ne ha 395 milioni, la quarta 620 milioni e la terza 426. La popolarità dunque è enorme e infatti, prosegue Arce/Arturo, «ho conosciuto fan francesi e polacchi che hanno visto la serie 15 volte, quindi potete ben capire che ci sia un po' di tristezza nel lasciare il personaggio ma anche il lavoro con i colleghi».
Questo è un sentimento comune ai tre protagonisti che ancora oggi non si riescono a spiegare il successo planetario della serie e che si dovranno confrontare anche con una popolarità che prima non avevano come Belèn Cuesta che, pur essendo l'ultima arrivata, racconta come, per via del nome Manila, «mi scrivono un sacco di persone dalle Filippine per farmi i complimenti. Per me è stata una cosa bellissima potermi confrontare con questo genere. Ho studiato recitazione e ho vissuto la precarietà del nostro mestiere ma, grazie a La casa di carta, ora potrò lavorare anche nelle cose che più mi piacciono come il teatro». Un po' come il collega Pedro Alonso che ricorda come sopravviveva in quanto «attore di classe media» mentre, appena ha capito che la serie stava diventando un fenomeno, «ho fatto un grande esercizio di distacco per prendere la giusta distanza anche per la mia salute mentale. Ho investito in opere mie, ho scritto un libro e prodotto due documentari».
Mentre Enrique Arce, vivaddio!, la pensa esattamente all'opposto: «Ho fatto tutta la mia prima parte della carriera negli Stati Uniti dove non m'hanno mai filato. Avevo l'autostima sotto le scarpe. All'improvviso con il personaggio di Arturo è cambiato tutto. E ora voglio mangiarmi il mondo e non vorrei che questa follia finisse mai».
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