"Monologhi, mito e contemporaneità. Così faccio sopravvivere il teatro in versi"

Il poeta di "I nomi e le voci": "Oggi va in scena troppa improvvisazione"

È l'«unico poeta italiano che pratichi il teatro in versi in modo continuativo e non occasionale»: motivo che basterebbe alla pubblicazione di I nomi e le voci (Mondadori), vera antologia di monologhi in versi che la collana di poesia contemporanea Lo Specchio curata da Maurizio Cucchi, ha dedicato a Roberto Mussapi. Ultimo volume di poesia La piuma del Simorgh (Mondadori), più recente in prosa Il sogno della Luna (Ponte alle Grazie), della propria geografia Mussapi, classe 1952, dice: «Non sono poeta cuneese, e nemmeno piemontese. Milano è la mia città, che ho scelto, e lo rifarei. Ma non sono milanese. Né per cultura né certo per lombardità poetica. Sono un poeta italiano».

Come è nata la vocazione al teatro in versi?

«Prima dei 40 anni, di colpo. Scrissi un testo portato in scena la prima volta da Paolo Bessegato nel 1989, Villon, e mi accorsi che c'era un rapporto tra la natura dei miei versi e la dialogicità del teatro. Così accanto alla poesia lirica ho accostato la produzione epica e poi drammatica, i tre generi della poesia teorizzati da Eliot».

Il teatro in versi però è in via di estinzione.

«Con la Modernità tende a scomparire. Viene ancora praticato da Goethe e Byron. Poi verranno D'Annunzio, Eliot, Mario Luzi, Derek Walcott. Quattro gatti, in effetti».

Il suo libro contiene una quindicina di opere: che cosa le tiene insieme?

«I monologhi raccolti ne I nomi e le voci attraversano trent'anni, sono il 70% di quelli che ho scritto. Nella prima parte, il rapporto col mito antico, Arianna, Didone, Cassandra, Penelope; nella seconda la materia scespiriana, Otello, Amleto, ma anche una forte componente orientale Le mille e una notte e Venezia, ricorrenti nella mia poesia - e infine i monologhi in ambiente contemporaneo, come La grotta azzurra».

La contemporaneità compete con le età dell'oro?

«Il mito non è una questione della classicità, ma universale: il mito è nel presente, è una realtà ed è in tutte le civiltà. Va da Arianna ai cessi degli autogrill».

In cui è ambientata La grotta azzurra.

«Nel bagno sotterraneo dell'autogrill Piani d'Invrea. La protagonista è un'addetta alle pulizie dei gabinetti. Una fiaba in versi su una professione che ora non c'è nemmeno più, ma che esprime l'urgenza tematica della trionfale epopea degli umili. Attualissima».

Come le venne l'idea?

«L'ispirazione me la diedero queste donne col grembiulino: emanavano un senso di profumo e rumori idraulici, regine delle acque sotterranee. Le immaginavo con la voce di Paola Pitagora. Scrissi La grotta azzurra ascoltando Nick Cave. Il rock, normalmente ballads, con la sua ripetitività, mi evoca le voci di fuori».

Nel tempo molti attori hanno incarnato questa sua poesia «assoluta».

«Sono tutti ricordati nel libro. Mi vengono in mente ora Laura Marinoni, per la quale ho scritto Penelope, per me attrice centrale del teatro italiano; Massimo Popolizio, che mi commissionò l'Otello; Miriam Mesturino, che portò in scena La grotta azzurra per tre anni».

Ne è nato un contributo online, durante Covid, con alcuni di loro, molto seguito sulla pagina Facebook Mondadori. Il volto del teatro post-lockdown?

«Il teatro è una necessità antropologica. Il Covid ha castigato il teatro più di altre arti, in Italia in modo discutibile ed eccessivo, perché è più facile mantenere le distanze in un teatro che in altri luoghi. Il teatro italiano tuttavia in questi dieci anni ha preso una china assolutamente negativa.

Troppa improvvisazione, troppe libertà sui classici, troppi spazi occupati da comici tv e presentatori di Sanremo: l'80% degli spettacoli che il Covid ci ha impedito di vedere non sono stati una perdita. Rimane un 20% che va protetto».

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