Morto Labranca, l'eleganza del trash

Descrisse l'estetica dell'universo coatto. Ma era estraneo alla volgarità

Camillo Langone

Venerdì pomeriggio mi sono perso a est di Milano (non ho il navigatore e con Google Maps sono imbranato) e a un certo punto ho visto il cartello «Pantigliate». Questo nome mi ricorda qualcosa, ho pensato. Ah, sì, il paese di Tommaso Labranca. Col teorico del trash avevo scambiato delle mail ma non lo avevo mai incontrato. Si ha un bel dire che grazie a internet un intellettuale può abitare ovunque: se Labranca avesse abitato a Milano probabilmente l'avrei conosciuto di persona ma siccome abitava a ben 19 chilometri dalla Stazione Centrale per me, adesso che è morto, è rimasto una fotografia, manco risiedesse in Amazzonia. Sarebbe bello avere un'ora di tempo e passarlo a salutare, mi sono detto venerdì sulla superstrada Paullese, ma un'ora di tempo non c'è mai e nel frattempo è apparso il cavalcavia grazie al quale sono riuscito a fare inversione di marcia e a raggiungere la mia meta.

Labranca non abitava a Pantigliate perché respinto dalla metropoli come capita a chi non può permettersi certi affitti, ma perché era proprio di Pantigliate: viveva nell'appartamento sotto quello di sua madre. Il suo isolamento era in parte dovuto al carattere intransigente e polemico, in parte a una scelta, e non a caso un suo libro si intitola Il piccolo isolazionista. Prolegomeni ad una metafisica della periferia. A Pantigliate era legato anche il nome della microcasa editrice che aveva fondato: 20090, come il codice di avviamento postale del paese. Il suo momento magico sono stati gli anni Novanta: nel 1994 aveva pubblicato Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash, un saggio che si potrebbe definire epocale, bissato l'anno dopo da Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli. Entrambi pubblicati da Castelvecchi, sembravano farne l'estetologo di fine millennio, il nuovo Gillo Dorfles. Il '97 è l'anno di un tentativo di movimento filosofico-letterario assieme agli allora giovani scrittori cannibali Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, Isabella Santacroce, Tiziano Scarpa, ma soprattutto dello zenith mediatico rappresentato da Anima mia, seguitissimo programma condotto da Fabio Fazio. Lui faceva l'autore e andava anche in video, ma non disponeva del pelo sullo stomaco per una televisione così mainstream e ruppe con Fazio e poi col resto dell'ambiente. Per descrivere il personaggio: alla prima riunione di redazione di un nuovo programma, dopo l'esordio troppo spavaldo del conduttore Piero Chiambretti - «Io sono il più grande autore televisivo italiano» - Labranca finse di andare in bagno e non rientrò mai più. Dopo simili episodi collaborò con programmi meno visti e a pubblicare con editori più piccoli, fino alle ultime scelte squisitamente autarchiche di autoproduzione. La sua parabola mi ricorda un po' quella di Luciano Bianciardi, altro talento in guerra con l'industria culturale, e mi fa pensare a un titolo di Roberto Freak Antoni: Non c'è gusto in Italia ad essere intelligenti.

Concludo con un ultimo aneddoto e se lo trovate melenso, pazienza.

Ogni anno verso Natale invitava gli amici per una piccola festa nella sua casa di Pantigliate: durante l'ultima edizione organizzò una mini-lotteria e col ricavato comprò delle coperte termiche che poi distribuì personalmente, una per una, ai barboni milanesi. Studiava il trash e il frivolo ma non era né trash né frivolo, Tommaso Labranca.

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