Nella "guerra all'Occidente" i primi nemici siamo noi

Il giornalista e saggista Douglas Murray cerca di "svegliare" la nostra società dalla crisi e dal senso di colpa da cui è ossessionata

Nella "guerra all'Occidente" i primi nemici siamo noi

The War on the West (HarperCollins), la guerra contro l'Occidente, ha avuto una particolare ventura: il vasto, valoroso libro di Douglas Murray, autore di The madness of the crowd, parla della guerra culturale in corso, del penoso attacco che la cultura occidentale subisce senza veramente disporre di un muro di difesa, mentre sparano i cannoni veri, quelli russi, scuotendo alle fondamenta il nostro mondo. Quei colpi, pur nella confusione generale, risuonano ovunque, interrogando il mondo politico e culturale; Murray cerca con evidente furia, passione, senso di urgenza, appena smorzati da un ironico British accent, di svegliare il mondo dalla crisi isterica e dal senso di colpa da cui è messo in grave pericolo di vita.

La guerra al nostro mondo, Murray la esamina soprattutto dal centro dell'impero, gli Usa, e dalla sua Inghilterra. La lente prescelta è quella dell'ossessione razziale, la cosiddetta «critical race theory» che si sviluppa con l'orrida uccisione di George Floyd da parte della polizia americana nel 2020 e quindi con Black Lives Matter. Come una malattia mortale, la «crt» prende possesso della società occidentale, creando ramificazioni profonde: la conseguenza infatti è una forma di senso di colpa ossessivo e definitivo, racconta punto per punto Murray. La nostra civiltà è stata ridotta a questo dai testi che riempiono ormai le librerie, i programmi scolastici, determinano le cattedre delle maggiori università come Harvard, Stanford, Columbia, ispirano le urla di manifestazioni incongrue e devastanti: vedono la nostra civiltà come un polipo avviluppato sullo schiavismo e l'odio razziale, dalle fondamenta di Gerusalemme, la religione, e di Roma, l'ordine della legge. La cultura razziale, secondo la «crt» nullifica tutta la strada verso l'eguaglianza e la fratellanza umana regolate dalle regole postcoloniali, dalla legge, dalla democrazia: «Il progresso nelle relazioni razziali è nella maggior parte un miraggio che oscura il fatto che i bianchi continuano consciamente e inconsciamente a fare tutto ciò che è in loro potere per assicurarsi il predominio e mantenere il controllo». Questo afferma, fra mille che Murray cita, uno degli autori più importanti che ha scritto il nuovo Talmud del nostro tempo, Derrick Bell.

La lista è lunga, ci troviamo da Michael Moore che fra l'altro scrive una serie di testi dal titolo Stupido uomo bianco, a Robin Di Angelo che sostiene che «bianchi buoni non ne esistono», fino a una pletora di altre bibbie del nuovo credo. E al seguito, tutti i giornalisti e i politici a caccia di consenso. Questo, nonostante la sofferta e ben concreta strada dell'eguaglianza sia ormai lunga due secoli, nonostante l'America abbia votato Obama presidente nel 2008, e il 66 per cento degli americani pensasse in quell'anno che i rapporti razziali fossero «sostanzialmente buoni». Non importa: come racconta minutamente Murray, l'accademia e di conseguenza l'educazione, i media e la buona creanza sociale americana si sono inventati un intero set di concetti e termini per cui i bianchi, anche i bambini piccoli (Ibram X. Kendi, How to be an antiracist) sono «suprematisti bianchi». Ed è un peccato senza remissione che chiede la rifondazione completa del mondo in cui viviamo e di cui fino a ieri siamo andati fieri, che chiede l'eliminazione morale di personaggi come Winston Churchill o George Washington per una parola sbagliata, una riga in un articolo o in un discorso, che chiede la distruzione dei loro testi, dei loro monumenti e della loro memoria, per sempre: è, dice Murray, una crocifissione senza resurrezione, un peccato per cui non può esistere perdono, perché il perdono è appunto parte di quella religione (Gerusalemme!) che la nuova religione antirazzista cancella, sostituendovi quella delle tribù indiane, dei Paesi colonizzati, delle antiche civiltà sovrastate dall'Occidente nei secoli. Non importa se gli aztechi facevano sacrifici umani, i loro dei e le loro antiche preghiere sono comunque preferibili, nei nuovi programmi per esempio delle scuole californiane, alla tradizione dell'uomo bianco.

Il concetto di criminalità della cultura bianca diventa, dice Murray, senso comune: se si chiede alla gente quanti neri disarmati sono stati uccisi dalla polizia (ormai vista come schierata nella difesa del mondo razzista e schiavista) il quaranta per cento risponde «fra mille e 10mila» mentre 9 è il numero esatto. Questa, dice Murray, è ignoranza, pigrizia nell'informarsi: per esempio, l'idea che l'uccisione di Floyd fosse razzista, insiste Murray, non è affatto provata; un'altra morte identica è per esempio quella di Tony Timpa, bianco, strangolato col ginocchio per ben 13 minuti, a Dallas nel 2016, e uno dei poliziotti era nero. Il doppio standard è una regola dell'attacco all'Occidente: tutto quello che facciamo noi è male, i crimini della rivoluzione nera e il razzismo del resto del mondo sono assolti. In particolare Murray prende di mira quello persecutorio della Cina e di altri Paesi asiatici come Thailandia e Giappone, dove il bianco è spesso visto, definito e trattato come un essere inferiore.

La discriminazione dei media poi è evidente: sono state poco raccontate le enormi devastazioni subite da città intere, come quelle di Portland o Seattle, durante le manifestazioni di Black Lives Matter del 2020. Douglas si è fatto un orribile giro per istituzioni e business chiusi, e ci trascina anche nel suo raccapriccio culturale per le manifestazioni di odio antibianco e antioccidente, fatte proprie dal masochismo delle stesse istituzioni che si autosmantellano e che, da educatrici, diventano educande da punire. Vediamo con Murray buttare per terra i monumenti di Thomas Jefferson, di Abraham Lincoln, in Inghilterra vediamo Churchill detronizzato, mentre si chiede alla Regina di chiedere scusa per l'Impero britannico; vediamo grandi aziende e istituzioni intimare ai dipendenti di ammettere di essere razzisti pena il licenziamento, le scuole che cacciano chi si rifiuta di insegnare i nuovi programmi, i genitori terrorizzati che si riuniscono in segreto chiedendosi invano che fare per i loro figli ignoranti e traumatizzati dal senso di colpa. Chi ha amici in America sa quanto lo stupore si accompagni al continuo senso di offesa e di perdita.

Ma ai miei occhi soprattutto due sono le indicazioni del volume: la prima è sul pericolo della stupidità indotta dall'ignoranza; la seconda sulla costruzione intellettuale contemporanea su cui si basa il nostro pensiero, e che adesso lo conduce alla malattia mortale dell'autodistruzione. La presa del potere di un mondo illetterato e storicamente ignaro è sulla bocca di tutti: qui viene verificata e identificata come elemento destrutturante del nostro mondo stesso. Per esempio, le accuse all'Inghilterra di colonialismo spietato e razzista franano sul fatto che l'Inghilterra ha abolito la schiavitù 250 anni fa e, anzi, per bloccarne il traffico, ha usato la sua flotta per pattugliare i mari, con dispendio enorme di forze e di denaro. La storia di Churchill, tacciato di razzismo, cancella i suoi immensi, unici, meriti democratici. Filosofi come Kant e Hume vengono inchiodati su una frasetta o una nota marginale da autori e politici che ignorano, come Murray dimostra, il loro impegno etico che lavora per un'identità umana egualitaria e antirazzista. E fin qui, l'ignoranza e la stupidità. Chi blatera di suprematismo poi, mentre esalta acriticamente civiltà dai costumi feroci e discriminatori facendone un giardino dell'Eden, sembra anche ignorare lo schiavismo arabo e quello contemporaneo, che conta decine di milioni di povere creature.

Infine, la lista dei pensatori Occidentali che hanno portato a questo stato di cose è paurosa e sconcertante, l'odio per noi stessi conta pilastri della nostra cultura assolti solo perché portano acqua al mulino della distruzione dell'Occidente: fra questi Marx, Edward Said, Foucault.

Per ognuno Murray ha un'analisi spietata e diretta, il suo coraggio si spinge beffardamente fino osservare che Michel Foucault, il teorico dell'influenza del potere sulla complessità della vita dell'individuo, l'autore della Storia della sessualità ancora oggi supercitato dai militanti anticapitalisti e anticolonialisti era un pedofilo che quando abitava a Sidi Bou Said comprava per pochi soldi bambini di sette, otto anni e li portava per il suo uso nei cimiteri di Tunisi.

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