NO GRAZIE

Giuseppe Bedeschi

La recente biografia di Togliatti, scritta da un giovane storico, Gianluca Fiocco (Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, Carocci editore), è un libro singolare, la cui lettura suscita, a dir poco, perplessità. A più di cinquant'anni dalla morte (1964) del leader comunista, e dopo il crollo per implosione dell'Urss, Fiocco ripropone infatti la figura del segretario del Pci a tutto tondo, definendolo «attuale ai nostri occhi, nel momento in cui l'Italia affronta una fase storica che sembra condannarla a una crescente marginalità».

In questo libro l'autore dà grande rilievo, naturalmente, alla cosiddetta svolta di Salerno, con la quale Togliatti, appena rientrato in Italia nel marzo 1944, sollecitò con forza la formazione di un governo di unità nazionale, in cui i comunisti avrebbero assunto le loro responsabilità, rinviando a un secondo tempo (una volta che il Paese fosse stato completamente liberato) la soluzione del problema istituzionale (monarchia o repubblica), attraverso il voto liberamente espresso dal popolo.

La svolta di Salerno (che Togliatti aveva concordato direttamente con Stalin in un colloquio avvenuto al Cremlino il 4 marzo) suscitò fortissime resistenze nel gruppo dirigente del Pci (e nella base comunista), ma Togliatti la impose con grande energia, e negli anni immediatamente successivi sviluppò una strategia politica assai diversa da quella seguita dai comunisti italiani in passato: una strategia basata su due concetti: «partito nuovo» e «democrazia progressiva». Partito nuovo significava che il Pci non doveva più essere, come in passato, un partito che si limitava a svolgere un ruolo di opposizione e di critica. Era stata questa, in sostanza, disse Togliatti, «la posizione di una associazione di propagandisti di un regime diverso e migliore». Ora il Pci doveva abbandonare questa sterile posizione, e doveva assumere responsabilità anche a livello governativo, accanto alle altre forze «conseguentemente democratiche». Esso doveva indicare soluzioni concrete e possibili in ogni momento, e avviare a soluzione i grandi problemi della società italiana. Togliatti proclamò senza esitazioni: «Oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia». Il Pci doveva battersi piuttosto per una «riforma industriale» (nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici) e per una riforma agraria. Bisognava altresì difendere la piccola borghesia operosa dell'industria e del commercio contro l'egoismo dei grandi gruppi economici. Queste riforme potevano e dovevano essere realizzate col «metodo democratico», cioè «lasciando che prevalesse la volontà della maggioranza del popolo», e «rispettando, ben inteso, tutti i diritti di critica di chi non è d'accordo».

Dunque, Togliatti sceglieva la strada (sono ancora sue parole) di «una repubblica organizzata sulla base di un sistema parlamentare rappresentativo», in cui tutte le riforme fossero realizzate col metodo democratico.

Senonché la linea politica di Togliatti non aveva, per la grande opinione pubblica, nessuna credibilità politica. Infatti il leader del Pci e il suo gruppo dirigente facevano ogni giorno (attraverso i loro discorsi e la loro stampa) una esaltazione delirante dell'Unione Sovietica, di Stalin, del mondo comunista, dove era stato abolito «lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo», dove era stata spazzata via la miseria, dove a tutti era stata data la possibilità di esprimere il meglio di sé, dove, insomma, era stata costruita una civiltà interamente nuova e superiore. E quando, nel 1948, i comunisti si impadronirono del potere in Cecoslovacchia con un colpo di stato, Togliatti e i dirigenti comunisti applaudirono. Come credere, allora, alla scelta democratica del Pci?

Del resto, anche dopo il XX Congresso del partito comunista sovietico, e dopo il rapporto segreto che vi tenne Krusciov (1956), in cui veniva denunciato il terrore instaurato da Stalin nell'Urss, Togliatti non rinunciò alla sua esaltazione del regime sovietico. Infatti, in una famosa intervista alla rivista Nuovi argomenti egli parlò sì di fenomeni di «degenerazione» nel sistema sovietico, ma aggiunse subito che «questa sovrapposizione era stata parziale ed aveva probabilmente avuto le più gravi manifestazioni alla sommità degli organi direttivi dello Stato e del partito», sicché non si poteva assolutamente dire che ne fosse conseguita «la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica, da cui derivava il suo carattere democratico e socialista, e che rendevano questa società superiore, per la sua qualità, alle moderne società capitalistiche». Infinitamente superiore!

Del resto, l'Unione Sovietica rimase sempre per Togliatti la stessa polare: così egli approvò toto corde lo schiacciamento della rivoluzione popolare ungherese effettuato dai carri armati sovietici (1956), e non ebbe alcuna esitazione ad approvare anche la messa a morte (1958) di Imre Nagy (che, primo ministro per pochi giorni, aveva riconosciuto la legittimità della rivolta popolare), voluta dai sovietici e da Kadar. («Nagy disse il leader del Pci in una trasmissione televisiva nel 1961 è stato condannato perché contro il suo paese aveva commesso dei delitti». Testuale!).

Quanto alla libertà di discussione all'interno del Pci togliattiano, basti ricordare il caso dei deputati comunisti Aldo Cucchi e Valdo Magnani, che espressero (nel 1951) alcune critiche alla linea generale del loro partito, che essi consideravano troppo condizionata dall'Unione Sovietica.

Cucchi e Magnani furono subito espulsi dal Pci, poiché il primo mostrava «la figura spregevole del traditore, dell'uomo senza princìpi e senza carattere, del falso, del provocatore agente del nemico», e il secondo era «un volgare e spregevole strumento nelle mani delle forze reazionarie, appositamente infiltratosi nelle file del nostro partito». In una intervista a L'Unità, Togliatti aggiunse che «anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». Questa era la democrazia praticata dal leader del Pci!

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