Non servono nuovi musei ma una nuova idea di museo

Dal Musil a Brescia al flop di "M9" a Mestre: ha ancora senso il "vecchio" modello che drena denaro e non ha pubblico?

Non servono nuovi musei ma una nuova idea di museo

La tempesta che ha investito il mondo della cultura, dal Covid in poi, ha evidenziato diverse criticità destinate comunque a esplodere, prima o poi. La prima riguarda il ruolo del museo nel 2020, per molti versi antistorico, pesante, ingombrante, comunque da ripensare. Una riflessione che urge, a 360 gradi, cominciando dall'analisi del pubblico. Fino allo scorso febbraio sembrava che i musei stessero in piedi sulla cosiddetta didattica, vista la quantità di scolaresche che si trasferivano in massa dalle aule alle sale, spesso con scarso interesse: per molto tempo non se ne potrà far conto. Discorso analogo per pensionati e anziani, che certamente hanno più tempo libero, sarà difficile recuperarli tutti, per questioni di sicurezza e anagrafe.

Ma la questione più urgente da affrontare è il concetto stesso di museo, troppo improntato alla conservazione, all'esposizione di oggetti, alla scarsa ricaduta sul territorio, alla distanza con la comunità di appartenenza. Nell'arte contemporanea, per esempio il Maxxi di Roma e il Castello di Rivoli, inseguono un ipotetico posizionamento internazionale e ignorano ciò che accade intorno, ma questo è il tipico difetto dell'attuale che infatti pubblico ne ha sempre coinvolto poco. E poi c'è il tempo eterno che passa dal progetto alla realizzazione: quando un nuovo museo apre è già vecchio e più è improntato sulle nuove tecnologie più rischia l'obsolescenza. Clamoroso il flop di M9 a Mestre, inaugurato meno di due anni fa, tutto basato su interazione tra utente e macchine, con centinaia di touch screen oggi inutilizzabili, inadeguato, mastodontico in tempi nei quali si apprezzano velocità e leggerezza, poco appetibile per il pubblico dei locali e dei turisti (e vedremo come il Museo della Lingua Italiana che nel 2021 sorgerà nel complesso di Santa Maria Novella a Firenze, come ha annunciato ieri il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini).

Non si può non essere dunque d'accordo con Stefano Bruno Galli, assessore alla Cultura della Regione Lombardia, e le sue perplessità rispetto al Musil, il costituendo museo dell'industria, e del Museo del Risorgimento, a Brescia (oltre ai tre principali a Roma, Torino e Milano se ne contano 34 in Italia!): progetti vecchi, costosi, pleonastici per non dire superati, ipotizzati come punti cardine della candidatura di Brescia a Capitale della Cultura nel 2023, che già di per sé sono carrozzoni antistorici e imponenti mangiatoie di denaro. Finita la festa e la sarabanda mai che resti qualcosa di davvero nuovo per le comunità interessate.

Certo, la pandemia ha messo a nudo uno scollamento ancor più profondo tra il vecchio mondo della cultura, ancora convinto che aprire spazi e musei risulti la strategia migliore, e le scelte dei cittadini. Impietosi i dati di questi mesi: i contenuti virtuali, tranne in pochissimi casi, non hanno funzionato, spostando ben poco in termini di accessi. Allora si sente dire in giro, dagli eredi dello zdanovismo staliniano, che la gente dovrebbe essere educata alla cultura, quando invece dovrebbe trattarsi di libera scelta in libero stato. Invece di progettare spazi nuovi, più fluidi, contenuti, adattabili alle diverse situazioni, eccoci ancora una volta di fronte alla possibilità di altre cattedrali nel deserto e ben pochi i politici a domandarsi quanto costa ogni visitatore alla comunità. All'opposto c'è il caso dell'eccezionale mostra Raffaello alle Scuderie del Quirinale di Roma, aperta 24 ore su 24 fino al 30 agosto e tutta esaurita: di fronte all'evento speciale si ha voglia di muoversi e viaggiare proprio perché limitato nello spazio e nel tempo. Ora o mai più, insomma.

Avevano ragione i Futuristi proclamando il loro odio per il museo? Marinetti&Co. volevano la vita vera, non la mummificazione nelle vetuste sale delle pinacoteche ottocentesche. A ripensarci, però, quelli sono ancora spazi da salvare, soprattutto quando si sforzano di attualizzare la comunicazione del patrimonio storico. Il dramma vero riguarda i nuovi musei: quelli che dogmaticamente sono sorti in periferia convinti di coinvolgere gli utenti dei centri commerciali, quando è proprio la storia a dirci che il potere politico e religioso ha sempre accentrato i luoghi simbolo in poche strade come biglietto da visita della città. In Italia non siamo né a Londra né a Berlino dove il decentramento e i nuovi quartieri hanno funzionato. Il vero fallimento è di chi avrebbe voluto sedurci con le tecnologie scambiandole per durevoli quando si consumano in sei mesi e necessitano di aggiornamento come le App sugli smartphone.

Quando architetti, progettisti e curatori vogliono raccontare la Storia attraverso le nuove tecnologie suona come quando un padre di famiglia, per essere contemporaneo, ascolta il rap, scelta decisamente stonata.

Quei pochi soldi rimasti andrebbero adoperati per altro. Speriamo che i dubbi di Stefano Bruno Galli vadano a segno, musei nuovi proprio non ce n'è bisogno.

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