Con Nostalgia Mario Martone torna in gara a Cannes a 27 anni di distanza da “L’amore molesto”. Oggi come allora il film nasce da un romanzo, in quel caso della Ferrante, in questo di Ermanno Rea, ed è ambientato a Napoli, come accaduto anche negli ultimi due titoli realizzati dal cineasta.
Protagonista è Felice Lasco (Pierfrancesco Favino), un uomo che dopo aver vissuto quarant’anni in Egitto torna a Napoli per rivedere l’ormai anziana madre (Aurora Quattrocchi) e accudirla prima che sia troppo tardi. Oltre a lei ritrova la città natale da cui si era allontanato all’improvviso quando era ancora un ragazzo. Tra i vicoli del Rione Sanità irrompono in lui ricordi lontani, specie quelli costruiti con l’allora amico fraterno Oreste (Tommaso Ragno), a cui lo lega ancora un segreto. Dopo aver sentito il carezzevole “dolore del ritorno”, Felice vagheggia di ricominciare da dove aveva lasciato, dopotutto è lui stesso a notare che “incredibilmente è rimasto tutto come una volta”. A dire il vero nel frattempo il suo compare ha fatto una fulgida carriera criminale, diventando il temuto boss del quartiere, ‘o Malommo. Nonostante gli avvertimenti ora minatori da parte di anonimi ora benevoli come quelli del prete anti-camorra Don Luigi (Francesco Di Leva), Felice è convinto di uscire indenne dalla resa dei conti coi fantasmi del passato.
La potenza delle scene con la madre anziana e la loro pietas sussurrata sono qualcosa di indelebile. Ci sono un figlio e chi l’ha messo al mondo. Lui si prende cura di lei, la lava e la pettina in un grande catino in plastica posto in quella che sembra una cripta senza tempo, uno spazio sacro in cui pare quasi si stia compiendo un rito paleocristiano. Una composizione dall’eleganza quieta ma dalla bellezza, non solo visiva, dirompente.
Il richiamo delle radici e dei luoghi del cuore arriva per tutti prima o poi, ma per taluni in modo così forte da renderli ciechi e sordi riguardo ai rischi. Nel caso di Felice non bastano una moto incendiata e un’incursione in casa a farlo desistere dal volersi ricongiungere con un ventre più grande di quello materno, quello di un luogo che lo ha cullato da bambino e lo fa tornare indietro nel tempo da adulto.
Napoli in “Nostalgia” è quasi un incantesimo, assurge a co-protagonista in qualità dell’amata per cui si è pronti a compiere qualsiasi sacrificio, anche rinunciare a quello che si è costruito altrove. Più che una città pare un organismo vivente, con i suoi mille occhi e orecchie per cui chi conta può sapere cosa succede in ogni casa e vicolo. Indomabile e contraddittoria, ingestibile e affascinante, questa città ti rapisce fin nel sottosuolo, in catacombe che sembrano alludere ai sotterranei della psiche. I vivi con i morti, il passato col presente, Napoli abbraccia ogni cosa nel medesimo istante. Un ancestrale codice morale qui impone di scegliere tra la religione dell’amore e quella del crimine. I luoghi fisici sfumano in quelli interiori e tutto, sotto questo pezzo di cielo, sfugge alla trasformazione.
Favino è sempre un grande interprete. Superata l’associazione uditiva col suo D’Artagnan delle commedie di Veronesi, si riesce ad apprezzare come abbia lavorato di sottrazione per dare vita a questo nuovo, delicato e intenso personaggio.
Impariamo a conoscere il suo Felice nel rapporto con la madre e nei silenzi delle sue assorte camminate, ne percepiamo le emozioni ovattate, appena accennate all’esterno. La sua fiducia nel sognare il domani nei luoghi del suo più remoto ieri si avverte nel progressivo passare dall’italiano con forte accento arabo al dialetto stretto di gioventù.
Nel pranzo tra lui e l’anziano corteggiatore della madre, da spettatori, veniamo in possesso di altre tessere del mosaico di una fanciullezza scapestrata già riaffiorata attraverso flashback degli anni 70, in immagini color seppia e dal formato quadrato.
Chi a suo tempo se ne è andato ha la sua nemesi in chi è restato. Nel caso dei due ex amici protagonisti è emblematica la scritta “scompari” che viene fatta trovare sul muro di casa a Felice. In quella parola c’è sì il monito ad andarsene ma forse anche la parola “compari” preceduta da uno sgrammaticato ma efficace prefisso atto a negare il legame che fu.
Nascosto dentro al suo cappuccio da villain, Oreste si aggira come un fantasma per le strade del territorio di cui è il misterioso e minaccioso capo indiscusso. Figura senza pace e redenzione, ha la propria investitura visiva nell’essere l’unico a poter sfoggiare l’orologio d’oro al polso a cielo aperto. Del resto lo stesso Felice, come primo gesto una volta in città, si era piegato alla fama dell’urbe togliendosi il suo e mettendolo in cassaforte. Oreste resta però un re che non esita a definire “il regno mio” con termini come manicomio e galera. Lui e l’esule di ritorno hanno ormai in comune solo ricordi scomodi, sia quelli belli che quelli brutti. La trascorsa complicità tra ragazzi, cementata da bagni in mare nudi, giri sulla stessa moto Gilera e piccole scorribande criminali, è sfumata. Il loro è un dialogo tra persone che sono state un tutt’uno ma che ora si rinfacciano le questioni in sospeso come due vecchi "innamorati" feriti.
La fuga nel momento del bisogno e la codardia sentimentale prima ancora che criminale sono difficili da perdonare, ancora di più se relativi a qualcuno che paradossalmente si presenta con la lingua lunga dopo decenni di colpevole silenzio. Ipotizzare come vada a finire, memori della favola della rana e dello scorpione, non inficia la partecipazione emotiva al film.
La nostalgia che dà il titolo all’opera è quella in grado di aiutare a riscoprire se stessi attraverso il disvelamento di ricordi parzialmente rimossi, ma è anche un’affezione pericolosa perché è la fascinazione per qualcosa che non c’è più.
È una voglia che si rifiuta di tornare nell’oblio, quella di riallacciare rapporti con posti e persone di una stagione cui ne sono seguite già troppe altre. Voltarsi indietro mentre si è alla guida della propria vita, sembra dire Martone, può essere un azzardo che non dà scampo.
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