Il "Paradiso" di Montanari e Martinelli ci spinge a uscire "a riveder le stelle"

Si chiude la trilogia dantesca con uno spettacolo che parte dalla tomba del Poeta ed evoca Pasolini, Emily Dickinson, Amelia Rosselli e altri autori

Il "Paradiso" di Montanari e Martinelli ci spinge a uscire "a riveder le stelle"

A Ravenna Dante non ha bisogno di centenari, di anni dedicati, di celebrazioni. Qui tutti gli anni sono anni danteschi: qui il più grande poeta di tutti i tempi ebbe la sua casa definitiva. Qui nacque l'Italia, questo concetto impossibile, che è greco romano etrusco germanico bizantino cristiano: una fucina di idiomi da cui prese forma la più bella delle lingue.

Ravenna Teatro e la Compagnia delle Albe sono una delle espressioni di questo genius loci, al sottoscritto senza dubbio la più cara per la genialità, il coraggio e la forza visionaria della coppia che la guida: Ermanna Montanari e Marco Martinelli. Dal 2017 Montanari e Martinelli perseguono un programma dantesco basato sulla riproposizione delle tre cantiche attraverso altrettanti spettacoli che coinvolgono tutta la città, con partenza dalla tomba del Poeta. Nel '17 si cominciò con l'Inferno, nel '19 fu la volta del Purgatorio, mentre per il Paradiso la scadenza è slittata al '22 causa Covid.

Inutile dire che proprio il Paradiso a causa della difficoltà del testo era lo spettacolo più atteso. La scommessa era enorme: raccontare ciò che è definitivo, dar tempo a ciò che non ha tempo. Ma le vere scommesse, quelle grandi, a Teatro, sono quelle perse in partenza: solo l'Impossibile è interessante. Questo è il tema del Paradiso. Fin dalla sosta alla tomba del Poeta, la partita si gioca sugli equivoci della mente e sulle bonarie correzioni di chi abita lassù: Beatrice. Ma bisogna che queste correzioni si facciano esperienza, e l'esperienza del Paradiso è un'esperienza smisurata, dove l'infinito sfida gli occhi e il linguaggio. In questo inizio alcuni figuranti accompagnano gli attori agitando mazzi di spighe. Queste spighe diventeranno pane: il Paradiso non lo si capisce se non attraverso quello che esso genera, fa crescere. In Paradiso si cresce, non si resta uguali.

La dilatazione dello spazio e la rarefazione delle parole sono il primo dato dello spettacolo. Si evoca Pasolini, seguiranno la Dickinson, Amelia Rosselli, Chesterton e tanti altri. Ma l'effetto non è quello di riempire lo spazio di parole, quanto piuttosto di introdurle discretamente dentro un tessuto di silenzio. Il Paradiso è la creazione di un'area di silenzio, dove la parola appare come una lieta follia. È pieno di bambini: sono loro i padroni di casa. Loro ospitano Piccarda, Cunizza, Giustiniano, e uno splendido Cacciaguida (impersonato da Gigio Dadina, co-fondatore della compagnia). Fino al termine del cammino, al Canto XXXIII, sussurrato raschiato sibilato dalla voce unica di Ermanna Montanari. Ma quanto e più delle parole sono il ritmo danzante e la musica - meravigliosa, di Filippo Ceccarelli - a parlarci di ciò che i nostri occhi vedono. Come lo è l'apparire, sempre umile, come chiedendo scusa, del regista, Marco Martinelli, per raccordare una scena con l'altra. Così il Paradiso svela la sua natura come e meglio di un'esegesi: non è la sua difficoltà a scandalizzarci, ma la sua assoluta semplicità.

«Solo lo stupore conosce» diceva Gregorio di Nissa. Questo è il compito del teatro: creare conoscenza attraverso una stupefazione. Qui il tempo è circolare, perciò si danza. Tutta la rappresentazione è accompagnata dal lavoro delle ricamatrici, che sono l'emblema stesso dell'Universo, che è un ricamo, una musica, un tessuto che si fa e disfa e rifà.

Si esce da questo Paradiso non con la sicumera di chi ha capito tutto, ma piuttosto con la forza ingenua del dubbio, con la forza degli interrogativi. E se tutto quello che abbiamo visto non esistesse? E se, viceversa, esistesse?

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