Dopo essere diventato un autore di culto del giornalismo americano grazie a Il dilemma dell'onnivoro (Adelphi 2008), Michael Pollan è passato a raccontare il mondo della psichedelia (Come cambiare la tua mente, Adelphi 2019) e ora, complice anche il lockdown, è passato a raccontare altre sostanze, molecole esistenti in natura che ci consentono di alterare la coscienza: ne è nato Piante che cambiano la mente (Adelphi, pagg. 294, euro 20), da lui stesso descritto nell'Introduzione come «un'indagine di carattere personale su tre di queste molecole e sulle piante straordinarie che le producono: la morfina nel papavero da oppio; la caffeina nel caffè e nel tè; e la mescalina contenuta nei cactus peyote e San Pedro». Indagine per la quale Pollan si è privato di caffeina, ha coltivato papaveri da oppio in giardino (rischiando l'arresto) e ha provato il leggendario peyote. Parla su zoom da Cambridge, Massachusetts, dove, in questo semestre autunnale, insegna ad Harvard.
Michael Pollan, la prima domanda è d'obbligo: ha ripreso a bere caffè?
«Certo. Bevo un caffè al mattino. Non ci sarebbe ragione di smettere: quella che ho descritto nel libro era solo un'esperienza per capire la mia relazione con il caffè. Basta una settimana: si interrompe la dipendenza e, soprattutto, si può provare il piacere immenso della prima tazzina...»
La caffeina è una droga?
«Le molecole della caffeina sono nelle nostre vite, ne diventiamo dipendenti molto velocemente. Ogni notte ci disintossichiamo, ma al mattino, appena svegli, non ci sentiamo neanche noi stessi, fino a che beviamo il caffè che ci aspetta e, solo allora, ci sentiamo normali: è qualcosa che appartiene al nostro ritmo».
Che altro fa?
«Migliora la memoria, la concentrazione e la resistenza, oltre a disconnetterci dal ciclo circadiano, per cui ci consente di lavorare fino a tarda notte. Il tutto, a un piccolo prezzo per la nostra salute. Quindi direi che è una droga notevole».
Però una droga.
«Sì, anche se di solito le persone pensano di no, che sia solo una bevanda... Ma causa dipendenza e cambia la nostra mente, ovvero fa tutte le cose che fanno le droghe. Scrivendone, volevo che tutte quelle persone che sono così orgogliose di non consumare droghe capissero che, in realtà, lo fanno anche loro; e volevo anche che tutti prendessimo coscienza del fatto che tutti usiamo le piante e le loro molecole».
Tutti?
«Il 90 per cento delle persone fa uso di caffeina ogni giorno, in qualche forma: caffè, cola, soda, tè... Ed è l'unica droga che diamo ai bambini: infatti io credo che non debba essere consentita nelle bevande per bambini. La caffeina è una di quelle cose materiali che hanno cambiato il corso della storia».
Che ruolo ha avuto?
«La caffeina è arrivata in Occidente nel 1650: sappiamo bene come fossero le cose prima...»
Come?
«C'era l'alcol. Si beveva già a colazione, e si dava l'alcol perfino ai ragazzini: insomma erano quasi tutti sempre ubriachi. Il tè e il caffè hanno introdotto una nuova sobrietà, rimpiazzando parzialmente l'alcol e dissipando una certa nebbia perenne dalle menti... Il che ha permesso di poter svolgere una serie di lavori che richiedono concentrazione, per esempio l'uso delle macchine».
Che altro?
«La caffeina ha influenzato l'Illuminismo in Francia e l'Età della ragione in Gran Bretagna, l'esplosione della scienza e il razionalismo. I pensatori dell'Illuminismo erano dei fan sfegatati della caffeina: Voltaire beveva 70 tazze di caffè al giorno, Balzac trangugiava caffè per scrivere e scrivere... E poi la caffeina ha contribuito alla rivoluzione industriale».
Facendoci lavorare di più?
«Innanzitutto servivano persone lucide, in grado di maneggiare in sicurezza le macchine e di tenere i registri; e poi ha permesso di avere forza lavoro fino a tardi, anche per tutta la notte. Poi si può discutere se sia una cosa buona o no, ma di sicuro la è stata per il capitalismo».
Perché ha scelto caffeina, oppio e mescalina?
«Perché corrispondono a tre categorie di sostanze: il caffè e il tè sono stimolanti, cioè attivano il nostro metabolismo; l'oppio è un sedativo, quindi lo deprimono; e la mescalina, in quanto psichedelica, è oltre, è qualcosa di completamente diverso».
L'oppio?
«È un esempio potente di come tutte le droghe possano essere una benedizione e, allo stesso tempo, una condanna. Dipende dall'uso, dal contesto e dalla motivazione. Senza l'oppio, la chirurgia sarebbe intollerabile: esso ci consente di alleviare il dolore e la sofferenza. Ma è anche male, perché ci sono ancora migliaia di morti di overdose, ogni anno. È il concetto greco di pharmakon: veleno e cura».
Ha parole durissime per la guerra alla droga intrapresa dagli Stati Uniti.
«È stato un errore tremendo. Nel 1971 c'erano mille morti l'anno per overdose; oggi sono oltre centomila, e la maggior parte di loro comincia con un oppiaceo legale, considerato sicuro come antidolorifico, anche se ora sappiamo che non è così».
E la mescalina?
«Ho fatto il mio viaggio personale, per la prima volta. Amo avere esperienza diretta di ciò di cui scrivo... Un amico mi aveva dato un po' di peyote da provare e mi sembrava la cosa perfetta durante la pandemia, quando non si poteva uscire: al posto di un viaggio reale, un viaggio con le droghe».
È stato così?
«No. La mescalina è tutt'altra cosa dalle droghe psichedeliche: non dà allucinazioni, non trasporta in altri luoghi; quello che fa è immergerti nel qui e ora, per cui il luogo dove sei diventa interessante e pieno di significato come mai prima e, alla fine, non hai bisogno di niente altro. Tutto è bellissimo, pieno di colori, odori e sensazioni e provi una profonda gratitudine per tutte le cose, che poi è quello di cui avevamo bisogno durante la pandemia: mentre tutti sentivamo che ci mancava qualcosa, lì percepivi un senso di adeguatezza».
Non aveva paura?
«Ero un po' nervoso, ma ero in un ambiente sicuro, e c'era mia moglie vicino a me. Aldous Huxley ha descritto meravigliosamente tutto questo nel suo Le porte della percezione: secondo lui, la coscienza normale pone un limite alla quantità di pensieri e informazioni che possono entrare in essa, mentre la mescalina apre le porte della percezione e lascia entrare molte più informazioni. Ed è così».
Perché l'idea di cambiare la mente ci attrae così tanto?
«Innanzitutto, la storia della cultura è stata alimentata da queste piante: esse aiutano certe menti a rompere gli schemi del pensiero comune. Non succede spesso, e di sicuro non a tutti ma, quando succede, l'incontro fra queste menti geniali o creative e la molecola produce qualcosa di diverso per la cultura».
Poi?
«Poi ci permettono di scappare dalla monotonia; alleviano il dolore; e sono una componente di ogni cultura, come il sesso. Nelle culture indigene dei nativi, il peyote aiuta la coesione sociale. E perfino gli animali, come gli uccelli o le api, ricorrono a sostanze che cambiano la loro mente».
Tra la pianta «sfruttata» e l'umano che la usa, ma ne dipende, chi domina davvero?
«Noi umani siamo arroganti e, quando coltiviamo oppio o cannabis, pensiamo di ottenere ciò che vogliamo; ma anche le piante ottengono ciò che vogliono, perché le nutriamo e le diffondiamo. Per certe piante è una vera e propria strategia evolutiva: trovare modi per compiacere quell'animale dal grosso cervello che le propaga nel mondo è molto utile per la sopravvivenza della specie. Le chiamiamo domesticate ma sono loro ad aver addomesticato noi, fin dall'epoca in cui siamo diventati stanziali per coltivarle. Le piante sono furbe, e intelligenti quanto noi».
La sostanza più stupefacente che ha provato?
«La mescalina. È stato solo troppo lungo: quattordici ore...»
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