Il "Pinocchio" di Matteo Garrone seduce ma non conquista

Dotato di suggestiva bellezza e realizzato con cura artigianale, il film ha una grazia illuminante nell'incipit e nel Geppetto di Benigni ma, in generale, colpisce poco al cuore.

Il "Pinocchio" di Matteo Garrone seduce ma non conquista

Matteo Garrone sognava da sempre di dirigere "Pinocchio" ed è riuscito a darne una versione cinematografica molto rispettosa dell'originale collodiano e forte di aspetti visivi interessanti.

A livello emotivo, però, il film sembra mancare di incisività. L'amore del regista per il mondo fiabesco dell'ottocento aveva già dato frutto all'applaudita trasposizione su schermo del testo "Il racconto dei racconti" di Gianbattista Basile; confrontarsi con qualcosa di popolare e appartenente all'immaginario collettivo come Pinocchio, però, è ben più insidioso. Quando non è stato edulcorato, come ad esempio nella pellicola disneyana, questo soggetto ha mietuto vittime tra diversi illustri cineasti e, nel caso di Garrone, la reverenza verso la fiaba di partenza sembra costituire sia il più grande pregio sia il maggior limite del film.

Ispirato alle tavole di Enrico Mazzanti, che accompagnarono le prime edizioni del romanzo di Collodi, quello odierno è un racconto dal sapore pittorico che ricorda i macchiaioli ed eccelle nella composizione dell’immagine. C'è cura devota nel ricreare sullo schermo una toscanità antica che è cristallizzata in inquadrature di eccezionale bellezza. Le scene iniziali, che vedono protagonista Roberto Benigni nei panni di Geppetto, si fanno ricordare: assente da sette anni dal grande schermo, l'attore torna a stregarci (come non faceva dai tempi de "La vita è bella") con un'interpretazione delicata e toccante. Il suo Geppetto è un uomo segnato fisicamente dalla povertà ma che irradia una dignità e un'umanità impareggiabili. La sua ingegnosa questua di un piatto di minestra vale da sola il prezzo del biglietto.

Appaiono centrate anche se non emotivamente trascinanti le figure della fata, turchina eppure fin troppo incolore nella sua semplicità, e quella del protagonista, credibile nell'irrequietezza così come nel candore. La volpe di Massimo Ceccherini (anche co-sceneggiatore del film) è fastidiosamente sopra le righe ma almeno si accompagna a un gatto/Papaleo piuttosto sedato.

I costumi, la scenografia e la fotografia, in un cinema come quello di Garrone sono elementi portanti, fautori di un'estetica decadente che trasuda una fascinazione magica. Il problema è che nonostante una certa atmosfera incantata e la presenza di sprazzi dominati da leggerezza e ironia, la visione del film non sembra indicata per piccoli e grandi così come pubblicizzato dal suo autore: allure fiabesca e cornice realista sono assemblate in maniera straniante, con un'autorialità forse respingente per il pubblico delle famiglie. Ci sono diversi personaggi che appaiono spaventevoli nelle loro fattezze di animali antropomorfizzati e poi scene come quella dell'impiccagione alla quercia di certo non sono rassicuranti per i bambini. La crudeltà nel libro era necessaria al compimento dell'intento pedagogico, perché parte dell'iniziazione alla vita.

L'universalità di Pinocchio, del resto, sta proprio nel suo abbracciare l'intera esistenza mediante allegorie e simbolismi, impossibile censurarne le zone buie, ma nel film si poteva tentare di attutirne l'effetto destabilizzante per i più piccoli, soprattutto volendone fare un'uscita natalizia.

Più che emozionante, il Pinocchio di Garrone è ridondante ma senza dubbio semina nel cuore una riflessione sulla miseria, materiale ma anche spirituale, che non conosce epoca.

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