"The Place" è il film con cui Paolo Genovese torna al cinema dopo "Perfetti sconosciuti" (oltre 17 milioni di euro al box office, diversi premi e remake in cantiere in Francia, Spagna e USA). Il regista, forte dell'accredito ottenuto presso il pubblico con il film precedente, avrebbe potuto confezionare una qualunque commedia giocando sul sicuro. Nel momento di massima popolarità, invece, anziché tentare di replicare la ricetta vincente, sceglie di osare e di far assaggiare allo spettatore qualcosa di nuovo, invitandolo a sperimentare un cinema diverso, teatrale e claustrofobico, che gioca in maniera cupa e misteriosa attorno al concetto di libero arbitrio. Se la stima per le intenzioni è indubbia, l'apprezzamento per la pellicola che ne è nata non è altrettanto marcato.
Il soggetto, ispirato ad una serie tv made in USA dal titolo "The Booth at the End", vede protagonisti un uomo misterioso (Valerio Mastandrea), nove questuanti (Vinicio Marchioni, Rocco Papaleo, Vittoria Puccini, Giulia Lazzarini, Alessandro Borghi, Alba Rohrwacher, Silvia D'Amico, Silvio Muccino e Marco Giallini) e una testimone silenziosa (Sabrina Ferilli), nei panni di una cameriera.
Siamo in un locale, "The Place". L'uomo seduto all'angolo riceve continue visite da persone che gli chiedono di realizzare un desiderio (come ad esempio la guarigione di un figlio, diventare più belli, ritrovare Dio o la vista) e assegna loro il prezzo da pagare, ossia un compito da portare a termine che spesso è doloroso e criminale (dal piazzare una bomba all’uccidere un bambino).
Di "Perfetti Sconosciuti" Genovese conserva il cast corale e l'unità di luogo. Quello di "The Place" però è un universo fatto solo di dialoghi, primi piani, campi e controcampi al tavolino di un bar. E' una sorta di teatro filmato in cui, per la maggior parte del tempo, i personaggi raccontano ciò che avviene fuori da quella visuale. Lo sforzo immaginativo richiesto allo spettatore è notevole ma anche affascinante.
L'ambiguo individuo al centro della scena, interpretato da Mastandrea, ha un'agenda su cui registra pedissequamente appunti come fosse uno psicanalista durante una seduta. Il suo impassibile distacco lo rende un burocrate dell'intermediazione. Manipola esistenze che non giudica e stipula patti faustiani rivelando talvolta l'aria stanca e sofferta di un cristo in croce. Più di ogni altra cosa è uno specchio che obbliga gli avventori a confrontarsi con il proprio lato oscuro. A questi perfetti sconosciuti di se stessi, fa intravedere i limiti morali che sono in grado di valicare.
"The Place" spiazza perché normalizza l'orrore, ricordandoci che i mostri non sono solo intorno a noi, simili a noi, ma potremmo addirittura essere noi.
La narrazione, però, non suscita mai vera empatia. La carrellata di storie diventa ben presto uno sterile accumulo di racconti frammentari che si accavallano, interrompendosi l'un l'altro di continuo e andando a incastrarsi in maniera farraginosa. Le vicende individuali si avviano a formare un puzzle che, una volta concluso, non aggiunge un significato superiore alle tessere che lo compongono. Aforismi e frasi a effetto incuriosiscono mentre il coinvolgimento emotivo latita perché il registro è incerto, mai davvero drammatico.
L'insieme assume le sembianze di un esercizio di stile godibile, impreziosito da ottime performance ma appesantito da una ripetizione a tratti sfiancante.Nonostante tutte queste opacità, il tentativo di Paolo Genovese di vivacizzare il panorama cinematografico cui siamo abituati è apprezzabile e la visione di "The Place" resta un'esperienza degna di interesse.
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