Come raccontato dal "Giornale" il 2 settembre scorso, è polemica, in Veneto, per la distribuzione, da parte della Regione, di un volume di Ettore Beggiato intitolato "1866: la grande truffa", sul plebiscito di annessione del Veneto all’Italia. Dopo l’intervento di Carlo Lottieri, dibattuto poi anche su altri quotidiani, ospitiamo ora quello di Dino Cofrancesco.
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La conoscenza storica è costituita da fatti e da interpretazioni: i fatti senza le interpretazioni sono ciechi, le interpretazioni senza il solido sostegno dei fatti navigano nel vuoto. Il mondo è pieno di fatti: sono materiali infiniti che possono venir impiegati per gli usi più diversi e si prestano a dimostrare qualsiasi tesi, basta toglierli dal loro contesto. Grazie ad essi una vicenda epocale o un «eroe» - un individuo cosmico-storico, per dirla con Hegel possono venir ridotti a leggende da demistificare impietosamente. Tempo fa, nelle bancarelle del kitsch, si vendeva un wc con la scritta: «Saranno grandi i Papi, saran potenti i re ma quando qui si siedono son tutti come me». E allora dài: vento in poppa e demoliamo tutti gli idoli, i simboli, i luoghi sacri della memoria. Nessuno è grande per il suo cameriere e perché Cavour e Garibaldi, Giolitti e De Gasperi dovrebbero fare eccezione?
Da qualche tempo i topi d'archivio che non hanno mai letto una pagina di Volpe, di Croce, di Romeo (o l'hanno letta male e superficialmente), fanno a gara nella scoperta dell'acqua calda. I plebisciti che sancirono l'annessione dei vecchi stati e staterelli della penisola all'Italia? Tutti truccati: votarono alcuni che non ne avevano titolo e le schede degli altri vennero manomesse. Veramente lo avevamo già letto in quello straordinario romanzo storico che è Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ma, come si suol dire, repetita iuvant e chissà quante ricerche si possono ancora fare per dimostrare, ad esempio, che i ciociari e gli irpini non sapevano neppure su cosa erano chiamati a pronunciarsi nel giorno delle votazioni. Nessun sospetto che nell'Ottocento i plebisciti non avessero tanto il compito di registrare le disposizioni reali degli elettori, quanto di affermare un principio ideale: che gli Stati non sono costruzioni delle diplomazie ma nascono dalla volontà dei popoli. Ma i simboli, evidentemente, non fanno più parte del racconto storico.
Una saggistica pletorica e ridondante, per mezzo secolo, ha imbottito i crani della sinistra per dimostrare che il processo di unificazione fu un colpo di mano dinastico, nell'indifferenza assoluta delle varie regioni italiane, e che si trattò di una vera e propria conquista piemontese, risoltasi nel Meridione in un'aperta colonizzazione di sfruttamento. Da qualche tempo, però, il refrain sembra appannaggio degli antiunitari di destra, cattolici, liberisti, secessionisti, neo-borbonici etc. Le scuole pubbliche, scrivono, sono da sempre schierate a difesa dello Stato e, pertanto, non ne poteva derivare se non un'idea distorta del Risorgimento. Ho frequentato, nel centro-sud, il liceo classico nella seconda metà degli anni Cinquanta ma non me n'ero accorto. Sia allora sia in seguito, nella facoltà di Lettere, mi hanno fatto leggere storici come Walter Maturi, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Rosario Romeo etc. che sul complesso dramma risorgimentale avevano scritto pagine ancora oggi attuali. Incuriosito, sono andato poi a rileggermi quello che oggi mi sembra il maggiore storico del Novecento italiano, Gioacchino Volpe, per vedere se un'immagine edulcorata e retorica delle guerre d'indipendenza potesse ritrovarsi almeno negli scritti di uno studioso monarchico e nazionalista. Peggio che andar di notte, giacché il primo volume di quel capolavoro storiografico che è Italia moderna. 1815-1898 ripubblicato nel 2008 dalle Lettere con una splendida introduzione di Francesco Perfetti descrive l'Italia dell'Ottocento nelle sue luci e nelle sue ombre e, anzi, più in queste che in quelle.
In realtà, la banalizzazione della tesi crociana che ogni storia è storia contemporanea ha portato molti intellettuali militanti di altro segno rispetto ai loro omologhi del '68 - a combattere le loro battaglie contro lo Stato nazionale, il welfarismo, il solidarismo buonista proiettandole nel passato e mostrando, nelle malefatte registrate nel passato, le antecedenti di quelle che si riscontrano oggi e che vanno radicalmente rimosse. Ci troviamo dinanzi a una letteratura paradossalmente cartesiana e illuministica: tutto ciò che è tradizione, identità comunitaria, sentimento di appartenenza diventa «sovrastruttura», illusione ottica, inganno di Ancien Régime. Gli antiunitari dei nostri anni, come i marxisti d'antan, proclamano che i proletari - nel loro caso, i cittadini comuni - non hanno patria e che agli individui stanno a cuore solo i diritti a tutela dei loro legittimi interessi prima il diritto al lavoro, ora il diritto incondizionato - al mercato. In entrambi i casi, alla concretezza della politica fatta di ragion di stato, di conflitti di potere che trovano la loro mediazione in qualcosa che li trascende si sostituisce l'universalismo per il quale la patria è ubi bene vivimus fosse pure a tremila km dal luogo natio e con figli che ignorano la lingua dei nonni.
Mai illusione fu più pericolosa di questa giacché, mentre l'universalismo della sinistra rinvia a una ragione implacabile e consequenziale che portava Tocqueville a chiedersi: perché l'eguaglianza deve arrestarsi di fronte alla proprietà? l'universalismo liberista poggia su una ragione assai più debole che lo porta, ad esempio, a giustificare l'ineguale distribuzione dei beni, su cui si fonda il mercato, col principio, per molti irrazionale, che assegna i beni del mondo ai meritevoli (e perché non ai bisognosi?).
In realtà, tra gli Individui e l'Universo ci sono le comunità politiche, che non si reggono solo sull'interesse e sulla ragione ma sulle tradizioni, sulle culture in senso antropologico, sulle appartenenze che definiscono le identità, sull'etica del destino.
Ne sono consapevoli quei secessionisti che, alleati occasionali dei liberisti, vogliono restaurare la Repubblica Veneta, ma sembrano ignorare che la grandezza dello Stato nazionale, come insegna Pierre Manent, fu nella capacità di mediare fra la Tribù e la Cosmopoli, e che la riscoperta delle radici venete è regressione barbarica come l'universalismo puro (liberista e socialista) è espressione della ragion nichilista.
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