La guerra santa della letteratura. Quando Pavel A. Florenskij scrive Antonio del romanzo e Antonio della tradizione, vorticoso commento alla Tentazione di Sant'Antonio di Gustave Flaubert, finora inedito in Italia (pubblicato dalle Edizioni degli Animali, pagg. 142, euro 12; a cura di Natalino Valentini; trad. Claudia Zonghetti), ha 23 anni, siamo nell'anno cruciale, il 1905, quello della rivoluzione tentata e sfumata. Il futuro grande filosofo è entrato da poco in amicizia con Andrej Belyj, figlio del suo professore di matematica, l'insigne Nikolaj V. Bugaev. Sono anni in cui, preda del simbolismo, la letteratura russa si rinnova, attraverso l'opera di Vladimir Solov'ëv, Valerij Brjusov, Konstantin Bal'mont, ma soprattutto grazie alle algide invenzioni di Aleksandr Blok e alle spericolatezze linguistiche dello stesso Belyj, «presentatosi sotto le spoglie di mistico, di arlecchino, di cantore della Russia, di antroposofo, di profeta scitico, di ballerino invasato» (Angelo Maria Ripellino). Attraverso i funambolismi verbali il poeta russo sapeva accedere al lato enigmatico della realtà, ad afferrare lo scalpo di Dio.
In questo contesto Florenskij sfida Flaubert dissezionando l'opera più complessa e che più lo attrae, La tentazione di Sant'Antonio, elaborata nell'arco di quasi trent'anni, più volte riveduta e corretta, vera icona della «venerazione per l'arte e del culto dello stile». Florenskij piglia per il bavero Flaubert, paladino dello scrittore che rinuncia voluttuosamente alla vita per involarsi nei paradisi pardon, negli inferi dell'arte, che pone «la letteratura nel sancta sanctorum dell'anima» facendone «qualcosa che va oltre il semplice interesse e assurge, piuttosto, a religione». Dietro alle volute formali del geniale inventore di Madame Bovary, Florenskij percepisce l'abisso, la degenerazione nel vizio, «il Grande Vuoto vestito di migliaia di colori sgargianti... fremito di bellezza al cospetto dell'illusorio». In qualche modo Florenskij che fu tormentato alla conversione dopo aver letto Tolstoj, per dire come il grande libro sfocia sempre nella scelta, nell'anamnesi di sé, nello schianto sguaina la letteratura russa contro quella francese, che dietro alla giustificazione della perfezione formale reca il virus della dissoluzione, della dissipazione di tutte le forme. «Qui esiste soltanto la materia psichica glutinosa, ribollente... subito anche noi, leggendo, diventiamo spoglie anime doloranti, urlando le intimità più indicibili»: così Elémire Zolla, ragionando sull'«Incidenza del romanzo russo» nella narrativa europea del tardo Ottocento. I russi, sembra dirci Florenskij, indagano l'anima, la dilatano; Flaubert solletica lo spleen, ausculta gli individui, esalta la personalità, cioè la regione delle voglie. In questo senso il Sant'Antonio di Flaubert è lo specchio del suo autore, un infinito esercizio di narcisismo, «non c'è modo di comprendere in cosa si distingua da un buddista ateo». Anche la colpa e lo svenimento nel peccato sono, in Flaubert, orpelli, canoni armonici per dare sinfonia alla creazione letteraria.
«Guadagnata la santità, conquistata la forza positiva, essi si rendevano conto che la salvezza poteva essere di tutti perché tutti avevano in sé un granello di realtà autentica...
questo è il tessuto delle concezioni degli antichi monaci», scrive Florenskij. La letteratura è un salto a occhi chiusi nell'iride di Dio, un bramito prima della salvezza. Visione etico-estetica abbacinante, inaccettabile, che acceca i pii nichilisti, gli oziosi figli del progresso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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