Norman Mailer? Un marxista da asilo domenicale. Thomas Elliot? Che vada a farsi fottere. Saul Bellow? Ha scritto porcherie. Mark Twain? Negli ultimi anni ha scritto solo schifezze. Marquez? Non meritava il Nobel. La controcultura, i guru e Grateful Dead? Con Jerry Garcia una volta fumai uno spinello per cercare di essere socievole. I critici letterari? Sono «cunnilinguisti» che si fingono gentiluomini perché hanno paura del vuoto?
Queste alcune delle frasi lapidarie, ma mai come sentenze perché sempre venate di ironia e spesso di verità, che si possono leggere in Lettere di Kurt Vonnegut, scritte dal grandissimo autore americano tra il 1940 e il 2002 e raccolte e curate dallo studioso e amico Dan Wakefield e ora in libreria per Bompiani (pagg. 556, euro 20; traduzione di Andrea Asioli). Queste pagine - il sottotitolo, «Tieniti stretto il cappello. Potremmo arrivare molto lontani», è tratto da un suo racconto - formano una sorta di autobiografia senza censure attraverso lettere che si leggono come short stories: storie brevi dove Vonnegut (Indianapolis 1922 - New York 2007) esprime quell'anima che, qualche volta, ha celato nei suoi romanzi: tra i più famosi Ghiaccio nove, Mattatoio n. 5, o La colazione dei campioni.
È in queste «lettere» che scopriamo il vero Vonnegut ma, soprattutto, sono piccoli capolavori che ci invitano a rileggere le sue opere nell'insieme. Può apparire sfrontato, irriverente, iconoclasta ma questo carteggio ci racconta di un uomo generoso, che ha saputo anticipare i nostri tempi, che non è mai sceso a compromessi nel mondo della letteratura e dell'arte, non solo americana. E se la prima parte è dedicata alle missive inviate ai familiari, per lo più dal fronte di guerra, è nelle parti successive che la lettura fagocita il lettore in una esplosione di opinioni che non sanno mai di artificio. Anche quando potrebbe godere finalmente del proprio successo, «mettersi comodo», Vonnegut prosegue con la propria coerenza e un coraggio che nell'ambiente letterario, ancor oggi, manca del tutto. Vonnegut invece si scaglia contro la critica e forse questo gli ha impedito di avere un pubblico ancora più ampio. Si dichiara fortemente lontano dai suoi contemporanei che «si fanno strada tra coltri di tenere usanze e consuetudini che imitano la grazia di un ballerino» ma che per lo scrittore non rappresentano che «una nazione di leccaculo. L'unico modo per far carriera di questi tempi () diventando chirurghi della critica a caccia di una reputazione facile (). Noi a nostro modo potremmo cercare di formare una netta maggioranza di persone senza una cazzo di laurea ad un laboratorio di scrittura?». E conclude: «Ora capisco tutti quei critici che si atteggiano a finti gentiluomini elitari. I finti gentiluomini sanno che il vuoto esiste, ma non ne parlano per non allarmare le classi inferiori che potrebbero diventare ingestibili».
Robert Sholes, che insegnava alla facoltà di Lettere dell'Università dello Iowa, nel 1967 dedicò un saggio, The Fabuletors, all'opera di grandi scrittori come John Barth o Lawrence Durrell inserendo anche Vonnegut che gli rispose con una lettera: «Gentile Robert, mi sto lambiccando il cervello per trovare quella parola che indica una persona che ha viaggiato molto e parla molte lingue. Credo che la parola al caso mio sia cunnilinguista. Come ci si sente a esserlo? Immagino sia a casa a catalogare diapositive. Se non avessi inserito un indice che segnala tutte le volte che mi menziona, non sarei riuscito a deporlo prima della fine (). La tua è solo scrittura e credo che anche un pezzo di idiota potrebbe leggere il tuo libro, capirne buona parte e rallegrarsene».
La raccolta dà conto di tutto. Le lettere di rifiuto del New Yorker e le stroncature dei critici letterari che ci misero molto tempo prima di comprendere l'ironia e l'attualità delle opere di Vonnegut, almeno sino agli anni Sessanta quando il suo romanzo Mattatoio n. 5 divenne un bestseller in tutto il mondo anche grazie a una nuova coscienza generazionale che contestava la guerra in Vietnam. Un pacifismo generalizzato che lo scrittore non amava malgrado fosse considerato un «eroe letterario, un contestatore della presunta legittimità e immutabilità dello status quo»: anzi era molto diffidente nei confronti di quella controcultura e del movimento hippie, tanto da scrivere un feroce articolo - Ma dove vai se il Nirvana non ce l'hai? - mantenendosi sempre lontano dai «guru» che ispiravano i Beatles, attori del cinema, i Grateful Dead («Una volta fumai uno spinello con Jerry Garcia e i Grateful Dead tanto per cercare di essere socievole»).
Anche con gli altri scrittori non si dimostrò mai un «cunnilinguista»: certo fu tra i pochissimi ad essere amico e ad aiutare Richard Yates, l'autore di Revolutionary Road, oltre a battersi per la diffondere la sua opera tra un pubblico più vasto (dato che non fu mai pienamente apprezzato se non dopo la sua morte): gli prestò diverse volte soldi e creò un «fondo di salvataggio» per cercare di farlo vivere al meglio (partecipò alla raccolta anche Woody Allen).
A Norman Mailer, ad esempio, scrisse: «Ti auguro tanta fortuna, perché sei lo scrittore della mia generazione che con la giusta fortuna potrebbe fare di più». E in un'altra lettera: «Ti dichiari marxista e quindi dovresti informarti di più sulle feste di raccolta fondi del Partito Socialista del Lavoro: sembrano picnic della scuola domenicale».
Non mancano i passaggi sul Nobel Saul Bellow: «Ha detto che uno scrittore non dovrebbe credersi uno sciamano. Io sostengo che è quello che dovrebbe essere. Non lo trovi elettrizzante»? Per poi un centinaio di pagine dopo scrivere che rileggendo Augie March di Bellow «sembra una porcheria».
Non nasconde la sua antipatia per il Nobel conferito a Màrquez, mentre per Vonnegut sarebbe stato Borges a meritarlo: «Non gli daranno mai il Nobel, tanto comunque vada, non puoi più comprarci neanche una casa veramente bella con i soldi del premio». Sui classici esprime ammirazione per la Poetica di Aristotele («Sembra scritto oggi»), per il poeta francese Francois Villon («Si rese immortale con appena mille versi di poesia») mentre a Thomas S. Eliot «che vada a farsi fottere» perché troppo elitario, e «Mark Twain negli ultimi anni scrisse solo schifezze».
Non manca di dichiararsi anche nei suoi carteggi un «luddista» perché «le nuove tecnologie si stanno allargando a macchia d'olio: e credo che oggi l'America consideri il progresso il prodotto più importante». E conclude: «L'umore della mia generazione? Delusione beffarda per come si è ridotto il mondo, così inospitale e sprezzante.
Una volta finite la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale avevamo progettato di costruire un Giardino dell'Eden. Ma per noi andrà tutto bene. Sono le altre persone che mi preoccupano, e parecchio: i nostri figli, ad esempio».
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