Quando Max David, l'hidalgo romagnolo, s'innamorò della corrida

Torna «Volapié», il libro-capolavoro del grande inviato speciale sulla tauromachia

Quando Max David, l'hidalgo romagnolo, s'innamorò della corrida

C'era una volta un gentleman e anche un caballero, anzi, un hidalgo, romagnolo però...

Di nome faceva Massimo, gli amici lo chiamavano Massimino ma il suo nom de plume giacché firmava come giornalista sulla torinese Gazzetta del Popolo era Max. Max David, giovane fuoriclasse della stampa fascista, licenziato in tronco con l'avvento delle leggi razziali del 1938 per via, appunto, di quel Max, troppo esotico e soprattutto del David, dai rimandi biblici...

Far seguire la Guerra Civile spagnola da un cronista ebreo non era certo ritenuto commendevole per il regime. Tuttavia, in Italia si indagò a fondo sui David italiani, scoprendone la «purezza della razza». Ciò comportò il suo reintegro con tante scuse e un viaggio premio da inviato speciale in Tanganika. Da quel momento, comunque, con prudenza, il nostro cominciò a firmarsi Massimo per esteso...

Classe 1908, ricorda Stenio Solinas nella postfazione a Volapié, che torna oggi in libreria (Settecolori, pagg. 288, euro 22) - uscì in prima edizione per le Edizioni Librarie Italiane nel 1954 - ha un anno in più di Montanelli, uno in meno di Piovene, dieci di Orio Vergani, Vittorio Rossi e Malaparte, dodici in più di Giorgio Bocca. Per limitarci ad alcuni mostri sacri del giornalismo nazionale. A distinguere David da tutti gli altri, la totale assenza di ideologizzazione: un giornalista puro che, sempre per dirla con Solinas, «andava, vedeva e raccontava, ma non dava giudizi». Quando poteva, montava a cavallo. Lo fece per recarsi alla sede della Gazzetta del popolo a negoziare un aumento, lo faceva da inviato speciale in giro per il mondo dove il nobile quadrupede fu un passepartout che gli consentì di allacciare molte importanti relazioni diplomatiche.

Anche lui è firma di punta del Corriere della sera, a partire dal 1949. Non seguirà Montanelli al Giornale, e andrà nella catena del Gruppo Monti.

Nel 1943 si trova in Spagna, inviato della Gazzetta del Popolo, per raccontare un eventuale sbarco anglo-americano. È quello l'anno in cui «cade aficionado», come si dice in gergo per indicare gli amanti della corrida. Matteo Nucci nella prefazione a Volapié indica una data precisa: il 22 aprile 1943, Giovedì Santo, all'imbrunire. La afición non lo ha ancora colpito. Anzi, prova nausea e repulsione nei confronti di questa attività cruenta, in una «Spagna che grondava sangue da ogni parte». Quella sera, ricorda Nucci, Max David «cadde aficionado», fu preda di una passione che lo prese nelle viscere diffondendosi nel corpo come una malattia legandolo al mondo dei tori per due anni. Fu allora che cominciò a scrivere Volapié, molto di più che un semplice trattato di tauromachia, come del resto lo è Morte nel pomeriggio di Ernest Hemingway. Gli occorsero tre anni per completarlo e occupava, all'origine, ben novecento pagine. Ne impiegò altri nove per tagliarne le cinquecento troppo dense di tecnicismi e riservate quindi esclusivamente agli addetti ai lavori. Il nucleo essenziale dell'opera, tuttavia, è rimasto immutato e coglie l'essenza della corrida, i suoi simbolismi, gli aspetti più sacrali e segreti. Hemingway lo legge e gli scrive: «Caro David, ti invidio. Avrei voluto saperle io tante cose».

Oggi perfino Morte nel pomeriggio è diventato introvabile. E dice bene Nucci che «il delirio di onnipotenza ha preso l'Occidente con la sua smania di far fuori la morte e non guardarla più negli occhi». Ripubblicare Volapié (letteralmente, indica l'azione della corrida che consiste nel colpire di corsa frontalmente il toro con la spada) è quindi un gesto politically incorrect.

Eppure al di là del tratto ironico e della scrittura brillante che sempre caratterizza l'autore, l'opera merita di essere letta, anche dai detrattori della fiesta, perché racconta l'anima profonda della Spagna in modo meraviglioso. Partendo da una premessa quasi macchiettistica: «Gli spagnoli hanno bisogno di competere in modo cruento e non si rassegnano alla superiorità fisica del toro», l'autore si spinge fino a Unamuno e Cervantes e rende in italiano termini intraducibili della tauromachia. Tra l'altro, racconta la storia di Luigi (Luis) Mazzantini, torero italiano di fine Ottocento, che superò le grandi gelosie e la pretesa spagnola di una esclusività iberica della corrida. Mazzantini II è il soprannome affibbiatogli dagli spagnoli, per distinguerlo dal toreador...

Volapié condensa tutto il vitalismo sfrenato della

corrida, il trionfo della vita che sarebbe impossibile senza la morte. «Del Cristo, che risorge, la morte che la Vergine piange, la morte del toro, la morte che rischia il torero, la morte che alcuni toreri porta con sé».

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