Quando Napolitano faceva paura a tutti i giornalisti

L'ex presidente della Repubblica è invincibile: dura da molto tempo sul campo di battaglia della politica italiana

Quando Napolitano faceva paura a tutti i giornalisti

Perché è invincibile Giorgio Napolitano, il nostro presidente della Repubblica? Perché dura da molto tempo sul campo di battaglia della politica italiana. Tanto da avere alle spalle due esistenze. La prima l'ho conosciuta bene perché Napolitano era uno dei personaggi delle mie vecchie cronache sul Pci, al tempo della Prima repubblica. In quell'epoca nutrivo per lui un timore reverenziale. L'uomo era notevole, dotato di grande cultura, di una forte intelligenza politica e di un aplomb da lord inglese.

Possedeva anche un carattere da prendere con le molle. Le voci interne alle Botteghe oscure lo dipingevano scostante, sempre con la puzza sotto il naso. Un tipo facile a innervosirsi per un nonnulla. Se un giornalista non rispettava al minuto l'ora decisa per un'intervista, se un certo articolo non gli piaceva, se il cronista di turno gli proponeva una domanda fastidiosa, non c'erano santi: il compagno Giorgio prendeva cappello. Per questo motivo, ogni volta che mi toccava intervistarlo, andavo da lui con un cicinino di patema d'animo. Anche perché, e qui parlo di una virtù da apprezzare al massimo, Napolitano era un tipo meticoloso. E di una pignoleria senza scampo, che non faceva sconti a nessuno. Una difesa indispensabile nei confronti di un'informazione andante, imprecisa, dove l'errore non era più considerato un delitto come accadeva con i direttori di un tempo. Voleva sempre rivedere l'intervista, prima che venisse stampata. Si soffermava su ogni parola, su ciascuna virgola. Persino sullo stile. Lo apprezzava di rado. E la lettura preventiva si concludeva con un sospiro, dal significato non dichiarato, ma chiaro: «Purtroppo i giornali sono zeppi di mezze calzette. Braccia strappate al lavoro sui campi».

Quando il testo era già pubblicato, poteva accadere che ti spedisse una missiva sferzante. Per contestare un sottotitolo. O una frase del sommario che non coincideva alla lettera con le parole che aveva pronunciato. Infine capitava di ricevere una tirata d'orecchio persino per la fotografia scelta a corredo dell'intervista. Era uno stile insolito in un'epoca di facilonerie trionfanti. Ma contribuiva a rendere Napolitano un big difficile da abbordare. I compagni torinesi erano arrivati al punto di ribattezzarlo «re Umberto»: per la calvizie, le fattezze del volto, il tratto un tantino altezzoso. Un giorno che mi successe di usare il nomignolo in un articolo, ricevetti un rimprovero molto urbano nella forma, ma assai risentito: «Basta con questa storia di re Umberto! Per lo meno scegliete un termine di confronto più attuale, moderno». Per cavarmi d'impaccio, gli proposi: «Me lo suggerisca lei, onorevole».

Napolitano si lisciò la pelata, poi buttò lì, con finta noncuranza: «Dite almeno che assomiglio a lord Carrington, il segretario della Nato». Allora non immaginavo che il compagno Giorgio sarebbe diventato il presidente della Repubblica.

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