Ma quante stupidaggini nei discorsi dei Nobel. La letteratura è altrove

Una raccolta delle prolusioni dei premiati mostra che a volte è meglio tacere. Anche per gli scrittori

Ma quante stupidaggini nei discorsi dei Nobel. La letteratura è altrove

Parole vane, vaghe, al vento. William Faulkner a Stoccolma non voleva andare. Al corrispondente esagitato di un quotidiano svedese dice, «sono un contadino, non posso abbandonare il campo». Poi, va a caccia con gli amici, «quella sera tocca a lui lavare i piatti», ricorda Fernanda Pivano. 10 novembre 1950: il più grande scrittore americano del Novecento è insignito del Premio Nobel per la letteratura. Infine, sotto costrizione, Will il viaggio lo fa: non limita l'abuso di alcol, incontra una bella svedese, Else, vedova di virile audacia, e pensa a flirtare più che a preparare il discorso di accettazione, vergato in aereo, alla buona. Si vede. «Il dovere del poeta, dello scrittore, è scrivere di questo. È suo privilegio aiutare l'uomo a non arrendersi, rincuorarlo, ricordargli il coraggio, l'onore, la speranza, l'orgoglio, la compassione, la pietà e il sacrificio che sono stati la gloria del suo passato». Lo scrittore deve rincuorare l'essere umano? Faulkner forse s'è bevuto il cervello, per fortuna che c'è Else a galvanizzarlo.

Il lavoro di Daniela Padoan, che nel volumone Per amore del mondo ha raccolto «I discorsi politici dei Premi Nobel per la letteratura» (Bompiani 2018, pagg. 592, euro 18,00), iniziativa azzeccata ancor più quest'anno che il Nobel per la letteratura non viene assegnato ha un pregio non scontato e probabilmente non voluto. Dimostra che gli scrittori non devono occuparsi di politica. Un genio narrativo, infatti, non sa esiliarsi, parlando di politica, dalle solite banalità da bar. Così, se Arcipelago Gulag è un muscolare, tolstojano atto d'accusa al sistema concentrazionario sovietico, il discorso di Aleksandr Solzenicyn pare una tazzulella 'e caffè presa con gli amici («Il mondo è inondato dalla sfrontata convinzione che la forza possa tutto, la giustizia nulla», davvero?, non ce ne siamo accorti...); d'altra parte Albert Camus è tanto persuasivo quando scrive L'uomo in rivolta e Il mito di Sisifo, donandoci salutari litri di inquietudine, quanto banale quando ripete che «il ruolo dello scrittore non può separarsi da difficili doveri. Per definizione, non può mettersi al servizio di quelli che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono», frase buona mentre si ruminano i corn flakes del perbenismo. Così, l'orazione di Saul Bellow pare una sonora presa per i fondelli («Poi sentiamo che nel florido Occidente la festa sta per finire, che la fine della nostra civiltà capitalista è dietro l'angolo...»), Isaac B. Singer, scrittore intollerabilmente talentuoso e atrocemente inattuale, mitraglia frasi di grottesca idiozia («lo scrittore serio dei giorni nostri deve essere profondamente attento ai problemi della sua generazione»), mentre Bertrand Russell può dire quel che gli pare (una cretineria a caso: «Non importa quanto si possa acquisire, si vorrà sempre acquisire di più»), non è uno scrittore, ha usurpato il Nobel per la letteratura ad altri più degni di lui (esempi? Sono buono, mi limito ai soliti noti: Joyce, Proust, Kafka, Rilke). In questa rissa a chi è più sciocco l'altare del Nobel, probabilmente, rende pretesco anche lo scrittore più cinico e dissoluto Kenzaburo Oe, che pure ha scritto romanzi arditi, ci ricorda che «i giapponesi hanno scelto il principio di non belligeranza quale base morale della rinascita» (embè?), Wole Soyinka, che pure ha studiato e lavorato in UK, si spreme in una ramanzina antioccidentale («Le biblioteche non sono state spurgate e le nuove generazioni possono consultare liberamente le opere di Frobenius, Hume, Hegel e Montesquieu senza trovarvi stampigliato il monito: Attenzione! Questo libro è pericoloso per la vostra dignità razziale»), Gao Xinyang sottolinea, caso mai non lo sapessimo, che «Nel secolo che si è appena concluso, la letteratura... è stata marchiata a fuoco dalla politica e dal potere più profondamente che in qualunque altro periodo storico, e gli scrittori sono stati oppressi e perseguitati come mai prima», mentre Harold Pinter al posto di giustificare la propria opera discetta sull'ingiustificabile politica estera americana («Come ogni persona qui presente sa bene, la giustificazione all'invasione dell'Iraq fu che Saddam Hussein disponeva di un pericolosissimo arsenale di armi di distruzione di massa...»).

Lo scrittore, va da sé, non è mai disinteressato, è una bestia politica anche quando edifica labirinti sulle nuvole. Il punto è che quando adotta un vocabolario politico fa cadere le braghe, scopre l'acqua calda, ripete che l'uomo è malvagio e ogni guerra è sbagliata, che novità. Mentre la letteratura ha la forza di mutare la prospettiva, di convertire i canoni, il discorso politico del letterato di turno è inerme, al posto di aprirci gli occhi ci fa calare la palpebra. Giustamente la Padoan riconosce che al cospetto di personalità titaniche e livide (cita «Knut Hamsun, Ezra Pound, Louis-Ferdinand Céline, Ernst Jünger, Gottfried Benn», ma anche Pirandello e Borges) occorre fare a meno del bisturi morale: «la complessità dell'opera di un grande autore, anche quando compia scelte scellerate di cui è responsabile come individuo, non può essere omologata all'univocità del messaggio totalitario e alla piattezza mortifera della letteratura di regime». Non penso sia un caso, allora, la scelta di non pubblicare il discorso del solo poeta che abbia avuto un ruolo politico importante. Alludo a Saint-John Perse, che fu il braccio destro di Aristide Briand, e che alla Conferenza di Monaco del 1938 fu il solo con Mussolini accondiscendente e Chamberlain e Daladier a fare da zerbini a ribellarsi fin quasi a menarlo alle pretese di Adolf Hitler. Saint-John Perse, poeta inarrivabile, fu ornato del Nobel nel 1960. Sul palco svedese non citò la sua esperienza politica. Parlò dei rapporti tra scienza e letteratura; parlò della vita e della morte.

Disse ciò che occorreva dire: «la poesia è soprattutto un modo di vivere, di vivere integralmente. Il poeta esisteva tra gli uomini delle caverne, esisterà tra gli uomini dell'era atomica perché è una intrinseca parte dell'uomo». Tra politica e poesia, tra arte e potere, il poeta non ammetteva complicità.

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