Quelle carte-choc sul processo popolare contro il Duce

Il memoriale del partigiano «Pinun» rivela dettagli inediti sulle ultime ore di Mussolini

Quelle carte-choc sul processo popolare contro il Duce

Mussolini e il partigiano-pescatore. Il 27 aprile 1945, nel municipio di Dongo, paese dell'alto lago di Como dove era stato arrestato, ebbe luogo un agitato e drammatico confronto tra il dittatore e alcuni tra i responsabili della sua cattura, aderenti alla locale cinquantaduesima Brigata garibaldina comandata dal conte fiorentino Pier Bellini delle Stelle, alias Pedro.

Un documento straordinario, ancora inedito, racconta l'assaggio di processo popolare cui il Duce venne sottoposto, prima dei diversi trasferimenti che ebbe a subire, nelle ultime ore della sua vita. Si tratta di un testo dattiloscritto di 20 pagine redatto, a breve distanza dagli eventi, da Aldo Castelli, il partigiano Pinun, pescatore del vicino paese di Domaso, protagonista nascosto di quelle giornate storiche.

Castelli, nato il 2 febbraio 1915, e scomparso nel 1985, ha tenuto per tutto il corso della sua vita la bocca ben cucita, su ciò che vide e seppe, salvo affidare le sue memorie a un custode di rango. Il memoriale di Pinun, in seguito sindaco socialista di Domaso, per decenni è rimasto infatti nelle disponibilità dell'avvocato fiorentino Bruno Piero Puccioni, agente plurimandatario di vari servizi segreti, operativo nei luoghi che furono teatro della fine di Mussolini.

Puccioni fu il regista del tentativo, poi fallito, di consegnare il dittatore, vivo, agli americani, nelle ore dell'epilogo del fascismo. A tale scopo, il legale toscano previde di mettere a temporanea disposizione dell'illustre prigioniero la residenza da lui occupata, Villa Camilla di Domaso, di proprietà della famiglia aristocratica dei Sebregondi, nell'attesa che gli eventi si compissero nella direzione desiderata.

La narrazione di Pinun è stata letta e studiata dal massimo storico del fascismo, Renzo De Felice, che, negli anni Ottanta del secolo scorso, poté confrontarsi con Puccioni, che gli mise a disposizione parte del suo archivio, sul quale, ad avviso di chi scrive, a lungo è stata posta una qualche forma di segreto di Stato, per la natura ultrasensibile dei materiali, e a tutela degli obblighi internazionali dell'Italia nei confronti di Paesi propri alleati, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Questi materiali avrebbero costituito l'oggetto del volume conclusivo della grande opera biografica di Mussolini, se la morte, che lo colse nel 1996, non avesse impedito a De Felice di portare a termine la sua gigantesca impresa storiografica.

Per cominciare, a quanto ci risulta, il memoriale di Aldo Castelli è l'unica fonte scritta dei partigiani protagonisti dei fatti di Dongo ad ammettere l'esistenza, tra le carte segrete sequestrate al dittatore, dell'epistolario Churchill-Mussolini. Basta solo questo elemento a farci comprendere la ragione perché il documento fosse destinato a restare inedito.

Nel dattiloscritto di Pinun si afferma in modo inequivocabile che, in una delle borse sottratte dai partigiani a Mussolini, vi era proprio il tesoro documentario più imponente che si potesse immaginare.

Ecco il passaggio: «Verso sera Bill (il braccio destro del comandante Pedro, ndr) consegnò al vicecommissario Tunesi una borsa di pelle, dicendogli fatti uccidere ma non lasciarti portar via questa borsa, qui dentro vi sono documenti da cui dipende l'avvenire d'Italia, demmo un'occhiata a detti documenti di sfuggita e notammo diversi fascicoli dove vi era scritto corrispondenza Churchill-Mussolini, Mussolini-Principe di Piemonte, entrata in guerra, intervento in Spagna, processo di Verona».

Dunque, anche il pescatore-partigiano ebbe modo di vedere che, tra i fascicoli, vi era anche il carteggio tra il Duce e lo statista britannico, la cui esistenza è oggetto di un tenace negazionismo anche da parte di storici italiani, come Mimmo Franzinelli.

Ma il memoriale di Pinun ci restituisce, in tutta la sua cruda realtà, la tensione al calor bianco che si registrò, nella sede del Comune di Dongo, dove Mussolini venne accompagnato, subito dopo l'arresto.

Quel che Castelli omise di raccontare, nel suo dattiloscritto, decenni più tardi, alla metà degli anni Settanta, lo svelò invece a un fidato collaboratore di Puccioni, lo storico fiorentino Alberto Maria Fortuna, che raccolse sue dichiarazioni registrate su bobina. Il partigiano Pinun, il pomeriggio di quel 27 aprile 1945, poté entrare nella stanza in cui Mussolini era a disposizione dei partigiani, per una ragione pratica molto semplice: aveva bisogno di essere medicato, per una ferita che si era procurato in un incidente d'auto, in quelle ore di frenetiche convulsioni, e dovette chiedere soccorso ai suoi compagni.

Quello che accadde ce lo racconta lui stesso: Mussolini, spinto dalla curiosità, gli domandò come mai fosse «conciato in quel modo», e Castelli fornì la spiegazione richiesta. Ma, nelle decine di pagine di dichiarazioni, registrate su nastro, Pinun aggiunge che, quando nella sala entrò Alessandro Pavolini (segretario del Partito fascista repubblicano e tra i gerarchi fucilati a Dongo, il 28 aprile '45, ndr), che in uno scontro a fuoco con i partigiani avvenuto poco prima del suo arresto, aveva rimediato una bruciante ferita al petto con i pallini di un fucile da caccia, si verificò una scena di cui apprendiamo per la prima volta. Pavolini si lamentava per il dolore, e il Duce, infastidito, alla fine sbottò, rivolto al suo fedelissimo: «Ma smettila! Guarda questo partigiano, è ferito più gravemente di te, e non si lamenta!».

Memorabile anche una seconda scena che ebbe luogo, a poca distanza temporale dalla prima. A un certo punto, al cospetto del dittatore si presentò un partigiano che aveva fatto rumorosamente irruzione nella stanza. Questi era in preda a escandescenze e, narra Castelli, «come un dannato picchiò un pugno sul tavolo dove era seduto Mussolini e gli disse: Ti ricordi al tal punto, in Grecia, quando tu passasti in rivista il mio reggimento?». Il Duce, «tutto spaventato gli rispose: Sì, sì, mi ricordo». E quello attaccò con la sua requisitoria: «Ebbene, io sono quel fante che è uscito dalle file e ti ha fatto vedere che eravamo senza scarpe e i pantaloni rotti, e per questo ho preso 15 giorni di rigore e non ho potuto venire in licenza, mentre il mio comandante veniva promosso. Questo tu eri capace di fare: e poi volevi vincere la guerra!». Mussolini, turbato, replicò: «Io non sapevo niente di quello che facevano i miei ufficiali, però sono convinto che, mentre i soldati facevano il loro dovere, gli ufficiali mi tradivano».

Era del tutto evidente che il Duce era ormai ridotto all'ombra di ciò che fu: uno spettro che, a passi veloci, si stava avviando verso la morte.

(1-continua)

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