"Tutti conoscono Breivik e le sue vittime, sanno quello che ha fatto. Hanno detto che è un mostro, un folle, il che implica che non sia come noi. Ma non è cresciuto e vissuto nel vuoto". È anche per questo che Åsne Seierstad, giornalista norvegese famosa per i suoi libri-reportage (come Il libraio di Kabul) ha deciso di intitolare Uno di noi la sua inchiesta su Anders Breivik, l'autore della strage sull'isola di Utoya, alle porte di Oslo, in cui, il 22 luglio del 2011, uccise sessantanove persone, la maggior parte ragazzi (oltre alle otto vittime della bomba davanti alla sede del governo). Al telefono da casa sua, circondata da cinque bambini ("non tutti figli miei, ci sono anche dei loro amici") la Seierstad parla del suo libro, che in Italia è pubblicato da Rizzoli, ed è stato paragonato dal New York Times a A sangue freddo di Capote. "Grazie..." dice lei.
Si è ispirata a Capote?
"Non in particolare. Ho letto tanti libri sul male, anche sulla strage di Columbine per esempio. Quello che dovevo avere era la storia di Breivik, delle sue vittime, e della società intorno a loro. Capire come è diventato colui che ha fatto ciò che ha fatto".
Che significa Uno di noi?
"Significa molto, a tanti livelli. Non è solo riferito a Breivik. Consideriamo le vittime: ognuno può identificarsi con ciascuna di loro. Ed è anche un libro sulla Norvegia e sull'Europa".
In che senso?
"Il manifesto di Breivik parla di islam e di una islamizzazione dell'Europa nel giro di 50-100 anni. Non è il solo, molti dicono cose simili. Anche se lui le ha portate a conseguenze estreme".
È la prima volta che parla del suo Paese. Come mai?
"Avevo un contratto con Newsweek, ero in Libia ed ero tornata a casa. Di solito in Norvegia mi rilasso. Ma questa volta la tragedia non dovevo andare a cercarla dall'altra parte del mondo. Breivik viveva nella mia strada, cinque case più in là".
Come ha reagito quando l'ha scoperto?
"Non è che me lo ricordassi, ma ho scoperto che avevamo frequentato lo stesso bar, la stessa palestra... Ero scioccata, eravamo tutti scioccati, tutta la Norvegia. Come potevamo aspettarcelo? Nel sottotitolo del libro mi chiedo: come è stato possibile?"
Come?
"È ciò che cerco di esplorare nel libro. Cinquecento pagine. Eppure alla fine non c'è una risposta, e non è strano: non c'è sempre una sola ragione per cui certe persone diventano criminali o terroristi, c'è un insieme di fattori".
Quali per esempio?
"Predisposizione genetica, infanzia, un inizio difficile. Da bambino Breivik non aveva affetti, era stato rifiutato dai genitori. Ha trascorso 3-4 anni seduto a giocare ai videogiochi, è entrato in contatto con il lato più oscuro del web, i siti estremisti e anti islamici".
Fu rifiutato anche da loro.
"Sì. Non era nessuno, e voleva disperatamente essere qualcuno: un vuoto disperato, che ha tentato di riempire distruggendo se stesso e gli altri. Anche se poi voleva dare un messaggio politico, perché lui è un terrorista politico".
Raccontando la sua storia non si realizza il suo desiderio di farsi pubblicità?
"No, è l'opposto. Quando il libro uscì Breivik aveva dei sostenitori sparsi per l'Europa, in Russia, nella Repubblica Ceca, in Polonia. Ora non c'è più nessuno. Io volevo svestirlo: più ne sappiamo, meno appare un eroe".
Si può scrivere una storia del genere in modo neutrale?
"Ci ho provato. Ho utilizzato lo stesso linguaggio per parlare di lui, delle vittime, o nelle parti fattuali. Vediamo le cose con la sua prospettiva. Ed è facile riderne, ma io non intendevo farmi beffe di lui. Spesso ho dovuto riscrivere dei passaggi. Non volevo giudicarlo: credo che i lettori debbano farlo, e credo che la maggior parte l'abbia fatto contro di lui, perché è un criminale".
Perché apre il libro con una scena così sconvolgente, gli undici ragazzi che si fingono morti e Breivik che li uccide?
"È una idea di Karl Ove Knausgard, l'autore de La mia lotta. Ha letto il manoscritto e mi ha scritto un commento sull'incipit, che era diverso. Mi ha detto: Dovresti puntare subito sulla cosa più terribile. Hai scritto questo libro per quello che ha fatto, non per quello che pensa".
E lei?
"Mi sono detta: ok, porterò il lettore in quanto c'è di più tremendo. E per me era quando quegli innocenti si fingono morti, come in un gioco, e il male si avvicina, lui capisce che non sono morti e spara a quei ragazzi, uno dopo l'altro... Per me era... quei ragazzi. Ne sopravvive solo uno".
I genitori delle vittime hanno approvato le scene più dure?
"Sì. Non avevano niente contro la brutalità delle descrizioni. Volevano che la gente sapesse esattamente che cosa era successo, e come. Ancora si svegliano ogni notte col pensiero di come i loro ragazzi sono stati uccisi, di come è stata la loro morte, mi dicevano: chissà quanta paura ha avuto il mio bambino".
La Norvegia è cambiata?
"Non direi. L'11 settembre ha cambiato il mondo, il 22 luglio è stato uno choc, un dolore immenso, un fallimento politico, ma credo che la Norvegia sia la stessa. Anche perché lui non rappresenta molti, non è come Al Qaida. Però ha molto in comune coi terroristi dell'Isis e di Al Qaida".
Somiglia ai jihadisti?
"Ha la stessa mentalità, il suo è un islamofascismo. Stesse idee, solo dalla parte opposta dello spettro. Stessa visione della società, della donna, dell'onore, del martirio; la volontà di convertire chi non è come loro, di punire i traditori, di polarizzare la società".
Che cosa sta scrivendo ora?
"Una storia che è lo specchio di quella di Breivik: due ragazze norvegesi scomparse nell'ottobre del 2013, partite per la Siria e reclutate dall'Isis. Ora sono a Raqqa. O almeno dovrebbero".
Breivik è il fallimento del multiculturalismo?
"No. Se avessimo due, cinque, dieci come lui... Ma non sono pronta a dire che abbia fallito: qual è l'alternativa? Non si può dare al colpa al multiculturalismo, la ragione del suo crimine dev'essere trovata in lui stesso".
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