Per Alberto Giacometti (1901-1966) l'arte del passato è stata uno schermo, un sedativo ottico per il suo approccio via via più traumatico con l'esperienza sensibile del reale. Allo sguardo nudo ciò che gli era noto diventa sconosciuto, l'ignoto assoluto, impossibile da rendere. Inizia così la sua vera avventura artistica, quando nessuna regola di rappresentazione può più essergli d'aiuto. Compresa quella facilità della mano di cui pure vi è un intenso esempio - gli omaggi a Cézanne, i vorticosi disegni a biro, i paesaggi svizzeri - nella esposizione di 230 opere al Grimaldi Forum del Principato di Monaco, a cura di Emilie Bouvard, direttrice scientifica della Fondazione Giacometti di Parigi da cui proviene il prestito integrale. Il Giacometti ormai consapevole lavora solo all'insegna di questa meraviglia, nell'accezione inquietante di incapacità stupita e allucinata, un reale meraviglioso che cita spesso e che dà il titolo alla mostra (Le réel merveilleux, fino al 29 agosto). Quattordici sequenze per una sofisticata partitura scenografica (W. Chatelain) in cui lo scultore di icone del Novecento non fa ombra al pittore che pur disegna.
Giacometti ridipinge le sue sculture, riproduce tridimensionalmente i suoi dipinti non cercando né armonia né bellezza, ma solo di fermare il reale. Un'urgenza che lo allontana dall'esperienza surrealista - l'Objet invisible, celebrato da Breton, la Femme qui marche (I) eretta nell'eleganza sensuale di un statua egizia, ma un tempo Mannequin, ricoperta di orpelli surreali e le stesse composizioni cubiste sono parentesi di ricerca verso l'indicibilità della figura. Poi Giacometti affonda in ritratti dipinti e scolpiti alla ricerca dello sguardo, dettaglio che consente di «distinguere una testa vivente da un cranio». Dal passato gli arriva l'immediatezza di una visione più simile a ciò che vede, l'arte che calma la mente, come quella dei ritratti funerari copti (Portraits du Fayoum).
Scorrono poi le tele nere degli anni 60, le Annette, la moglie, gli Isaku Yanaihara professore di filosofia giapponese i cui tratti lo ipnotizzano. Co-protagonisti di una creazione audiovisiva (Mosquito) di immagini in diffrazione che ricompongono il celebre atelier del 14esimo arrondissement - al 46, rue Hippolite-Maindron - proiettando su muri e pannelli l'artista in azione. Lui lavora con pennello spesso e rapido sui fondi, il volto emerge poi da linee fitte e sottili in febbrile sovrapposizione. Caroline nera, rossa, in lacrime, contemporanea ai ritratti di Annette, è maîtresse delle notti parigine ed ultima amante. Per l'artista che sperimenta ai limiti della scultura - con La grande femme IV del 58 supera per la prima volta la scala umana (270 cm) e scolpisce il suo ultimo nudo femminile lei sarà la personale «dismisura» con cui esplora su una cabrio rossa «le vallate strette e buie di Parigi», trasposizione visionaria della Svizzera natale. Sempre presente nell'immaginario giacomettiano, dagli acquerelli adolescenziali l'artista del grigio non ha mai disdegnato il colore, tra i gessi dipinti in mostra spicca la testa di Flora Mayo del 26 - ai ritratti in bronzo, blocchi di forza compatta e rocciosa, come un'ibridazione tra modello e paesaggio.
Di fronte alla scala inumana della natura Giacometti nel Cantone dei Grigioni si protegge lavorando dalla finestra o dallo spiraglio della porta, come chiuso nell'atelier parigino. Teme l'infinito e riduce il suo mondo a sineddoche - l'albero è paesaggio - o il paesaggio è stupefacente visione incompiuta come in Paysage à Stampa del 1961 - la testa sta per la figura. Fino allo stratagemma che fulmina Francis Bacon, la gabbia che delimita e rassicura (Le Nez, 1947) e accende la tentazione teatrale: l'albero scarno unica scenografia di En attendant Godot è commissionato all'artista da Samuel Beckett per la messinscena al Théâtre de l'Odéon del 61. Gerard Byrne ci si è ispirato per un'installazione, Construction V (after Giacometti).
L'homme qui marche II nel suo gesso originale (nel 2010 L'uomo che cammina I è stato battuto da Sotheby's a circa 75 milioni di euro) ci ricorda la rivoluzione di tutti i fondamenti della scultura, la scala, la base massiccia quasi architettonica per un corpo filiforme, la superficie tormentata dalle dita, lo spazio intorno che diventa componente essenziale.
Sartre ne celebrerà una lettura esistenzialista ma Giacometti è solo un artista che cerca di rendere ciò che il suo occhio inconscio vede: «Un uomo che cammina per strada non pesa niente, è in ogni caso molto meno pesante dello stesso uomo morto o privo di sensi. Si tiene in equilibrio sulle sue gambe, non ne avverti il peso. È questo quello che volevo rendere, questa leggerezza».
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