Spoleto - Controcorrente. Tra gli osannanti aggettivi e le inesauste iperboli con cui Luca Ronconi è stato glorificato in cinquant'anni di rutilante carriera, quello che - più semplicemente - sembra sintetizzarne il genio, è proprio «controcorrente». In quale altro modo definire - ad esempio - la sua prossima regia? Tutti si aspetterebbero dalla Danza di morte che il 27 giugno esordirà al Festival di Spoleto, la sulfurea - ma consueta - interpretazione «diabolica» del testo di Strindberg. Un marito-vampiro ed una moglie-strega che si sbranano a vicenda, quali simbolo dell'inferno chiamato «vita matrimoniale». E invece. «E invece, da cento anni in qua, questo capolavoro è sempre stato letto così - fa una smorfia Ronconi -. Forse non è più il caso d'insistere».
Ma come, maestro? Che fine fa un vincolo coniugale analizzato come satanico menage domestico?
«C'è, c'è sempre. Ma letto in un'altra forma. Più che un matrimonio infernale, Alice e il Capitano conducono un'annoiata, mortifera routine. È l'arrivo di un estraneo a far scattare in loro - come in una coppia d'attori davanti ad un insperato spettatore - il gusto dell'esibizione satanica. Allora recitano la loro reale natura. Perché lo fanno? Forse sono davvero dei vampiri. Non a caso in scena si addentano l'un l'altro sul collo».
Per tornare a trattarsi umanamente, perfino cordialmente, una volta che l'estraneo è partito?
«Proprio così. Attenzione, però: poiché stavolta la moglie e il marito della finzione sono realmente coniugati (Adriana Asti e Giorgio Ferrara) vorrei proprio evitare che si dicesse Vedi? Fanno in scena come fossero a casa loro. Dunque la spigolosità del testo resta tutta. Ma con una screziatura di grottesco, di humour nero».
E la celebre isola col faro, su cui i due abitano soli e disperati? Anche quella sparisce?
«È solo allusa. Con un faro semplicemente disegnato, sopra il sipario, e solo pochissimi mobili, dei molti previsti da Strindberg, trascinati e rimossi dalla scena come dalla risacca del mare che circonda l'isola».
Dunque: con questa Danza di morte, a Spoleto quarantatrè anni dopo l'esplosivo Orlando furioso che la rivelò al mondo intero, lei si sente ancora ribelle? Ancora controcorrente?
«Quarantatrè anni fa non volevo andare controcorrente. Solo seguire il mio intuito. Non volevo far scoppiare un casino. Il casino scoppiò da sé. Oggi come allora l'obiettivo non sono io. Ma lo spettacolo».
C'è un autore che Luca Ronconi non metterà mai in scena?
«Molière».
E poi dice che non va controcorrente!
«Grandissimo, per carità: un genio. Ma i caratteri di Molière sono così definiti, così fissati... Mentre io amo i personaggi ondivaghi, fluttuanti. Allo sbando perfino dentro sé stessi».
E qual è l'autore che ama di più?
«Amo appassionatamente quello che sto mettendo in scena in quel momento. Poi magari mi passa. Però posso dire di aver goduto una fortuna enorme: mai fatto la regia di un autore che non abbia amato».
Ronconi va mai a teatro? Pensa che il teatro italiano sia di qualità?
«Vado a teatro perché sono curioso. Per scoprire nuovi attori e vedere in che direzione va il nostro teatro. E non direi che sia la qualità, la cosa più importante per il teatro italiano. Ma la quantità».
Il contrario di quel che dicono i suoi colleghi. Ci risiamo col controcorrente.
«In teatro bisogna avere il naso lungo. Intuire oggi ciò che accadrà fra cinque, dieci anni. E questo è la quantità, a consentirlo. Non la qualità. Perché la qualità basta a sé stessa. Non sempre guarda oltre sé».
Che ne pensa, allora, dei registi che - anche sul suo esempio - «interpretano» un testo fino ad andare oltre le intenzioni dello stesso autore? Che magari è morto e sepolto, e non si può più difendere?
«Non siamo gli esecutori testamentari degli autori. Siamo artisti. Certo: quando negli anni 60 esplose la scrittura scenica, scoprimmo di poter interpretare secondo la nostra sensibilità la sensibilità degli autori. E l'abbracciammo come una liberazione. Ma a furia di riscrivere l'uso s'è piuttosto logorato. Nell'opera lirica, ad esempio: non se ne può più di vedere una storia che si svolge a Parigi ambientata, che so, in Groenlandia o in Perù. Sono talmente facili, queste dissacrazioni! Oggi io preferisco seguire fedelmente le didascalie dell'autore. La trama originale, l'epoca effettiva...».
Insomma: riesce ad andare controcorrente anche quando rispetta la tradizione.
«Non ho mai stravolto alcun testo. Ho semplicemente cercato di raccontarlo da un altro punto di vista. Il mio».
Quando Raicinque passa vecchie commedie, capita di vedervi un giovane attore chiamato Luca Ronconi.
«Mi sono rivisto in un dramma russo con Tino Buazzelli ed Evi Maltagliati. Loro ci davano dentro come matti. Facevano gli attori, insomma. Io no: ero sobrio, tranquillo. E non ero male, sa? Ero pure bellino...».
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