"Risalimmo lo stivale da Taranto fino a Udine"

Hans Jonas era tra i combattenti con la stella di Davide: ecco cosa vide durante la Liberazione

"Risalimmo lo stivale da Taranto fino a Udine"

Quando, nel dicembre scorso, la notizia della decisione della Giuria mi ha raggiunto a casa mia in America, il piacere della sorpresa è stato per un attimo offuscato dalla voce ammonitrice del mio recente voto di non fare più viaggi transatlantici nel mio novantesimo anno o in quelli che verranno. Solo per un momento. Poi il mio sguardo cadde sul nome fra parentesi, «Udine» vicino «Percoto» -, e con la forza di una convinzione invincibile, contro ogni consiglio di prudenza, capii che dovevo andarci!

Perché per la casualità della storia quel nome segna una pietra miliare nella mia vita e racchiude uno dei suoi più indimenticabili ricordi. Fu a Udine, all'inizio dell'estate del 1945, che la Seconda Guerra Mondiale finì per me - cinque anni da soldato contro Hitler nello scenario Mediterraneo. Qui dopo la resa della Germania il mio reparto, il Gruppo Brigata Ebraica dell'ottava Armata Britannica, si fermò a riposare nel suo lungo viaggio da Taranto verso il Nord. Eravamo tutti volontari della popolazione ebraica della Palestina (sotto mandato britannico), molti provenienti da paesi europei di lingua tedesca caduti sotto la dominazione nazista. Avevamo insistito per avere un'identità riconosciuta come forza combattente ebraica e in realtà eravamo facilmente riconoscibili da insegne come la Stella di David sulle nostre uniformi.

Così accadde ancora e ancora, nel nostro lento avanzare lungo l'Italia, che ebrei sopravvissuti, uscendo dai loro nascondigli - per la maggior parte donne - ci salutassero e ci raccontassero le loro storie. Da loro ricevemmo la prima idea della vera portata dell'orrore dell'Olocausto, ma anche ascoltammo storie commoventi di coraggiosa pietà e umanità fra gli italiani, a cui essi dovevano la loro sopravvivenza - un necessario antidoto contro l'oltraggio crescente dei nostri cuori. La più commovente di queste storie mi fu raccontata personalmente qui a Udine e la riporto al suo luogo di origine in questa visita dopo circa mezzo secolo, in modo che la luce, nel buio, non sia dimenticata.

Una mattina alcuni di noi passeggiavano nell'indaffarata piazza del mercato, quando due anziane signore ci avvicinarono. Quando scoprimmo che parlavano fluentemente il tedesco, toccò a me ascoltare la loro storia. Erano sorelle di Trieste, appartenenti a una benestante famiglia Austro-Ebraica, cittadine italiane dal 1919, una vedova, l'altra nubile, che avevano vissuto assieme tranquillamente nella loro città natale fino ai primi anni della guerra. Poi, un giorno, sentirono che anche a Trieste si era cominciato a radunare gli ebrei per deportarli in Germania. In tutta fretta, fecero due valigie, presero contante e gioielli, e corsero alla stazione dove comperarono i biglietti per un luogo dove nessuno le conoscesse e potessero trovare rifugio. Mentre si avvicinavano all'ingresso del binario raggelarono. Vicino al controllore stava una di quelle temute guardie fasciste a controllare i documenti di identità. Immobili e prossime alla disperazione, notarono un dirigente delle ferrovie che faceva loro segno di nascosto, seguendo le sue indicazioni mimate passarono attraverso un cancello non vigilato e riuscirono a salire sul treno. Udine andava bene per fare un tentativo: nessuno le conosceva e non conoscevano nessuno. Trovarono una soffitta non arredata in affitto, la presero, e, come inizio, si accontentarono di questo rifugio. Alcuni giorni dopo, un furgone si fermò sotto la casa, furono scaricati due letti, portati fino alla loro porta e consegnati con il messaggio orale che sua eminenza l'Arcivescovo aveva saputo della loro situazione e desiderava rendere un po' più confortevole la loro nuova dimora. Nei lunghi mesi che seguirono, le due donne, straniere non registrate, senza tessere annonarie, furono costrette a vendere, pezzo dopo pezzo, i loro gioielli per comperare cibo al costoso mercato nero. Un giorno vennero a sapere di una venditrice che in un'altra parte della città aveva del lardo da vendere. Le loro riserve si stavano esaurendo, ma l'occasione era troppo rara per lasciarsela sfuggire. Un altro gioiello fu venduto in tutta fretta e giunsero in tempo per comperarne un prezioso chilogrammo - ad un prezzo esorbitante, naturalmente. A tarda notte, nello stesso giorno, sentirono bussare alla porta. Spaventate aprirono - davanti a loro stava il cinico operatore del mercato nero che disse: «Perdonatemi, per favore. Non sapevo chi foste quando vi ho venduto quel lardo questa mattina. Mi è stato detto dopo e sono venuta a scusarmi. Da voi non voglio denaro», gettò loro una busta con tutte le loro banconote, si girò e scomparve.

Finita quella storia, il narratore aggiunse «e ora, forse, capirete perché noi due non emigreremo in Palestina (dato che noi della brigata Ebraica invitavamo tutti i sopravvissuti che incontravamo), ma desideriamo vivere fra gli italiani». Da parte mia, ho conservato questa storia per tutta la vita come una sacra fede.

Dal testo della conferenza intitolata «Razzismo», letto a Percoto in occasione del Premio Nonino del 1993

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