Lo stress post traumatico dopo la guerra col Covid

Paura, rabbia, il ritorno delle nazioni, anziani ai margini. Sarà come uscire da un conflitto

Lo stress post traumatico dopo la guerra col Covid

o, non torneremo ad essere ciò che eravamo. Non tornerà «tutto come prima». Ogni grande shock culturale comporta un post trauma.

Abbiamo vissuto a lungo, ormai, in maniera interamente diversa rispetto al passato. Abbiamo sofferto e avuto paura. La guerra è così, e in genere comporta una condizione post traumatica. Sono nata dopo la Seconda guerra mondiale; la nostra uscita dal Covid penso somiglierà al periodo della mia prima infanzia: entusiasmo, sospetto, paura, stringere i denti. Fu un'epoca rivoluzionaria, i costumi cambiarono, i più forti vinsero la memoria insopportabile e le difficoltà economiche, restò silente il senso di morte per ripresentarsi negli incubi.

Trent'anni fa ero in Israele a «coprire» la Guerra del Golfo. La sirena che suona, la maschera sul viso, la paura che il missile contenga gas venefici... è l'unica mia altra esperienza di una maschera sul viso. La radio avvertiva quando si poteva toglierla senza pericolo. Col Covid, la indossi quasi come un'altra parte del corpo. Quando questo cambierà, si tornerà a pettinarsi, a vestirsi, a truccarsi: un'altra vita. Ci sarà chi ha molto sofferto e ne porterà i segni, chi resterà depresso e traumatizzato, chi invece avrà cucinato incessantemente e sarà ingrassato. Fenomeni collettivi di cui già parlano i giornali; i loro postumi diventeranno oggetto di interesse sociale, sostituiranno o integreranno il compito classico delle ASL, saranno al centro della svolta sociale e sanitaria che si prospetta.

Il Covid lascerà il suo segna post traumatico ovunque, in ogni angolo di mondo: dove io mi trovo ci siamo quasi. Mentre scrivo sento un piccolo dolore al braccio sinistro perché solo sabato sera ho ricevuto la seconda iniezione del vaccino Pfizer. Desidero questo dolore, lo percepisco con soddisfazione, è il segno della libertà, anelo alla mia «patente verde» per potere viaggiare, venire in Italia, tornare a essere libera... Ma sarò un'altra persona in un'altra società: il post trauma porta con sé conseguenze politico-culturali e mutazioni sociali.

La perdita della libertà di andare e fare quel che si vuole, e quindi l'ubbidienza alle regole, l'obbligo a una vita in spazi chiusi, il senso di vertigine davanti a metropoli con le piazze e le strade vuote, saranno a lungo con noi. Sarà con noi il dolore, sconosciuto nella nostra epoca se non nelle società in guerra come Israele, della morte collettiva, a centinaia, a migliaia: d'un tratto, per la prima volta dalla guerra, amici o persone conosciute se ne sono andate tutte insieme, soffrendo. La sofferenza e la scomparsa di vecchi genitori fino a ieri protettivi, la novità assoluta della solitudine nel momento della morte, non sono più un film, né lo è la perdita del lavoro, del tuo negozio, del tuo ufficio, della scuola dei ragazzi.

Sarà con noi ciò che rende la guerra così temibile: non sai che cosa ti può accadere fra un minuto, o domani, o mai. Un attimo dopo il tampone negativo, puoi già essere di nuovo infettato. Come sul campo di battaglia: un attimo dopo averla scampata, corri lontano, ma una pallottola può raggiungerti. E dunque, non c'è di cosa e di chi fidarsi veramente. Nasce quindi dopo la pandemia un'inusitata diffidenza verso l'ambiente che ci circonda, avremo paura come prima non l'abbiamo mai avuta, come creature ferite saremo sensibili all'aspetto, agli odori, ai luoghi. Saremo all'erta, Usciremo dalla trincea per avventurarci nell'incognito. Ma sappiamo che la pandemia può sempre impossessarsi delle case, dei luoghi pubblici, della società... Può quindi verificarsi una risposta di chiusura in ambienti sociali e culturali più ristretti, un ricorso alla famiglia e quindi una rivalutazione di ciò che comunque ci ha protetto e accompagnato in tempi difficili, una tendenza a non muovere, a aspettare e quindi a conservare.

D'altra parte sentiamo ormai serpeggiare la rabbia in gruppi sociali che si ritenevano consolidati e che ora si sentono più fragili e a rischio, impoveriti, inascoltati, isolati. Non c'è ideologia vincente, o religione che sappia venire loro in soccorso: i richiami al valore della resistenza al morbo, alla bontà della gente, alla resilienza della società in Europa sono suonati fragili. La sensazione prevalente di fronte ai discorsi dei leader è quella di imbattersi in una imbarazzata retorica, che ha fatto appello a valori disprezzati, in disuso, per sopravvivere. Le classi dirigenti hanno reagito senza una guida sicura della scienza o della fede: la casa, la famiglia, l'unione affettiva del piccolo nucleo di protezione dell'individuo impaurito, la famiglia sono rimaste ferite mentre la cultura postmoderna seguitava a suggerire il loro declino inevitabile. Le piazze impoverite ma finalmente libere potranno dunque scatenare una risposta molto agitata. Se si guarda agli USA, si vede che da sinistra e da destra la pandemia ha suscitato disinformazione, fake news, antisemitismo, e una violenza sconosciuta dagli anni 60-70. Biden si avvia al potere dovendo gestire un senato venato di ambizioni socialiste e folle furiose contro il passato razzista e una generica «oppressione», in gran parte ormai paravento alla crisi della sinistra, mentre dall'altra parte la folla di Trump è percorsa da fremiti rivoluzionari ed è percorsa da una rabbia incontenibile (non di marca conservatrice ma populista).

Speriamo che l'Europa faccia diversamente, ma la delusione della gente è pari alla sua crisi: i confini che dovevano sparire sono di nuovo in vigore, e se ne dovrà pur tenere conto; in fondo si percepisce l'orgoglio che nelle vaccinazioni l'Italia faccia meglio della Germania e dela Francia. Lo «stato nazione» nella confusione europea ha ricominciato a combattere per sé, dentro i propri confini, nelle proprie piazze deserte. L'Italia ha fatto i conti col suo deserto monumentale, e con la sua storia, così sola, così magnifica nella piazza di Siena vuota, sul Ponte Vecchio cui giunge il rumore dell'acqua d'Arno.

Il post trauma più ricorrente sarà quello degli incubi legati alla morte e alla vecchiaia che abbiamo bevuto a grandi sorsate per un anno intero.

La vecchiaia! E chi se la aspettava, in una società forever young, che ha messo al centro della ricerca scientifica la promessa di una lunga vita, in cui tutti siamo belli, tutti corriamo nel parco e fino a tarda età ci innamoriamo e cerchiamo il successo! Invece ce l'hanno ripetuto senza pietà: voi che siete vecchi state chiusi in casa, e se morirete, pazienza, è preferibile che sopravvivano i giovani.

La marginalizzazione è cominciata. I vecchi contano meno, possono essere spazzati via, sono molto più fragili e anche pesanti.

Dunque, usciremo nella piazza vuota, ci guarderemo, saremo imbarazzati, stupiti, felici e anche arrabbiati. Sarà difficile riacquistare il ritmo di prima: viaggi, vestiti, cibo... L'economia faticherà tanto a riprendersi, saremo più modesti? Più solerti verso i malati? Saremo più gentili?

La cosa strana, lo so, è che, come ci si incanta in una malinconica nostalgia di fronte a un film con gli abiti e le facce degli anni '20 e '30, nonostante si sappia l'orrore che con sé portò quell'epoca, di fronte a quelle cucina in uso continuo,

a quella riunione su zoom, a quell'ennesimo pasto da soli, o in due faccia a faccia, a quell'adorata serie Netflix, a quell'ambizione mistica di esistere pure in un universo sconvolto... sentiremo una perversa nostalgia.

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