Ritratto (non infernale) di Corso Donati

La storica Diacciati ricostruisce le vicende del "Grande Barone" nemico dell'Alighieri

Ritratto (non infernale) di Corso Donati

La fine di Corso Donati, conosciuto dai fiorentini come il Grande Barone, è nota e Dante ne dà, nel Purgatorio, una descrizione livida e feroce: «quei che più n'ha colpa,/vegg'ïo a coda d'una bestia tratto/ inver' la valle ove mai non si scolpa./ La bestia ad ogne passo va più ratto,/ crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,/ e lascia il corpo vilmente disfatto». Ma prima di quel fatale 6 ottobre 1308, dove, dopo feroce inseguimento e cattura, il magnate fiorentino fu trascinato dal suo cavallo imbizzarrito e finito con un colpo di lancia alla gola, chi era stato Corso Donati? Un fiero cavaliere o un rissoso assassino? Un partigiano sfegatato e sanguinario dei Guelfi o un valoroso condottiero di Firenze? Il folle che per la sua incontenibile smania di potere aveva spezzato in due i Guelfi capeggiando la fazione dei neri e ritrascinato Firenze nella guerra civile o un accorto politico, dalla splendida oratoria? Un novello Catilina senza rispetto per nessuno o un cultore delle tradizioni della nobiltà?

La risposta è che quest'uomo poliedrico e inarrestabile era stato tutte queste cose e altre ancora. Un miscuglio di bene e male, di antico e di moderno che ben riassume lo Zeitgeist della fine del XIII secolo. Per rendersene conto niente di meglio del saggio, che si legge quasi come un romanzo, pubblicato da Silvia Diacciati per i tipi di Sellerio: Il Barone. Corso Donati nella Firenze di Dante (pagg. 328, euro 14).

La storica dell'università fiorentina (già autrice di Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento) ricostruisce con dovizia di particolari, e attento uso delle fonti, la parabola di questo nobile, che divenne uno dei personaggi più in vista della città e per certi versi della penisola italiana.

Come spiega Diacciati Firenze era riuscita a ritagliarsi un ruolo ben preciso nell'Italia della fine del XIII secolo. Nei suoi vicoli male odoranti stavano iniziando a svilupparsi attività produttive di tutto rispetto, ad accumularsi ricchezza. Insomma con le sue torri cittadine e le grandi famiglie la città era una piccola New York anni Trenta del suo tempo. Ma al posto dei gangster c'erano consorterie nobiliari, sempre in guerra per il controllo del territorio. Prima in un lunghissimo scontro tra Guelfi e Ghibellini, che venne chiuso dalla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), poi in una lotta tra Guelfi che vide contrapposto il clan dei Donati a quello dei Cerchi.

Fu in quest'ambiente che crebbe, prosperò e precipitò l'astro politico di Corso. Nato attorno al 1250, sin da giovane rivelò un insieme di doti contrastanti, ben riassunte dal cronista medievale Dino Compagni (1246 -1324): «Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d'ingegno, con l'animo sempre intento a malfare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran séguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio a' Cerchi e a' loro amici; molto avere guadagnò, e in grande altezza salì».

Eccolo Corso, affascinante, ben vestito, colto abbastanza da scrivere in latino, richiesto da altre città per fare il podestà, indispensabile sul campo di battaglia. Eppure incontrollabile, sempre pronto a portare discordia all'interno della città. Si sposa per tre volte per moventi puramente economici, lascia dietro di sé una scia di sangue che i nuovi ordinamenti antimagnatizi, voluti da Giano della Bella nel 1293, tentarono inutilmente di fermare. Alle calendimaggio dell'anno 1300, nel mezzo dei festeggiamenti, i Donati attaccano i Cerchi e sembra che la città debba di nuovo precipitare in un turbine di violenza. Si rischia il tutti contro tutti, i Donati contro i Cerchi, i nobili contro i mercanti che li escludono dal potere delle corporazioni. Proprio quello scenario apocalittico descritto da Dante e che a Dante stesso costerà l'esilio. Nel 1301 i neri, con l'ausilio di Bonifacio VIII, risultarono momentaneamente vincitori e Corso poté persino permettersi di tentare di incendiare il palazzo dei priori (glielo impedì una mobilitazione popolare), ma la misura di quello che la città era in grado di sopportare dal Gran Barone iniziava ad essere ormai colma. Sempre più inviso ad (ex) amici e nemici, finì per trasformarsi nel colpevole ideale a cui ascrivere qualunque malefatta, anche la più improbabile. La mattina del 3 ottobre 1308 un leone fuggì dalle gabbie dove i fiorentini tenevano rinchiusi alcuni esemplari. La colpa venne data a Corso, era ormai trattato alla stregua di un terrorista dei giorni nostri, e non senza motivo... Era il segno della fine ormai imminente del suo lungo potere. Non appena Corso fu incriminato per un'accusa minore e un po' alcaponesca, debiti, il popolo si scagliò verso i suoi palazzi. Lui fuggì da un passaggio segreto. Ma lo ripresero nei pressi di Rovezzano, sulla sua testa c'era ormai una taglia di 500 fiorini.

Il finale l'abbiamo raccontato all'inizio, mentre lo riportavano indietro cadde restando impigliato alla staffa e la bestia partì... Suicidio? Tentativo di fuga? Ultimo oltraggio dei nemici? Lo seppellirono i monaci del convento di San Salvi. Ma la violenza non fu seppellita con lui.

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