L'altra metà di Checco Zalone è Gennaro Nunziante. L'uno performer musicista e autore, l'altro regista, sceneggiatore, e secondo alcuni eminenza grigia dietro al successo di Luca Medici (in arte Checco Zalone). Sole a catinelle, la terza commedia del duo ha incassato oltre 18 milioni di euro in soli quattro giorni, superando il record di Che bella giornata. La commedia sì «garbata», ma con uno strano fondo di dolcezza e cinismo, ha già messo in moto critici cinematografici e critici dello Zeitgeist, professionali e di complemento. A Nunziante non resta che godersi il successo della sua creatura. Classe 1962, figlio di un ferroviere e di una casalinga, «Sono cresciuto nel quartiere popolare della Libertà, a Bari, all'epoca era un ghetto», ha detto al Giornale Nunziante. «Ho cominciato da ragazzino, facevo un giornale satirico con amici. Da lì i quotidiani e le tv locali». Dai duetti surreali (di culto in Puglia) di Toti e Tata con Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiuolo, alle trasmissioni di Telenorba, all'incontro, sette anni fa, con Luca Medici.
Come funziona la scrittura tra voi due?
«Magari porto una scaletta e poi si comincia a colorarla, c'è una simbiosi naturale sull'aspetto comico. Ci piace ridere delle stesse cose».
In una trasmissione alla radio Svizzera in duo con Zalone vi si sentiva mischiare Chopin e Gigi D'Alessio, sembrava, a ruota libera.
«Certo. Ma improvvisazione non vuol dire la prima cosa che viene in mente. Abbiamo sempre moltissimo materiale preparato. È un po' come uno standard jazz: i musicisti improvvisano, ma la struttura è sempre chiarissima».
Per Sole a catinelle siete partiti dalla struttura o dalle gag?
«Dalla storia. Ci piaceva l'idea di aggiungere alla comicità di Luca un elemento di responsabilità come la paternità. Comunque a noi piace avere un motorino d'avviamento che metta in moto via via sempre più elementi, come un effetto valanga. Non ci piacciono i plot che partono troppo grossi».
Per Cado dalle nubi l'idea era Ricomincio da tre di Troisi, ma al contrario: il provinciale che arriva in città, ma invece di sentirsi intimidito la colonizza con la sua cultura «terrona». Per Sole a catinelle, invece?
«L'idea era una specie di variazione sulla vicenda dei discepoli ad Emmaus, che tornano dall'aver visto la Crocifissione. Invece qui abbiamo due discepoli (ride, ndr), Checco e il bambino che vanno via delusi dal dio danaro. Finita l'illusione del boom economico, i due partono, in cerca di qualcosa cui aggrapparsi».
C'è un riferimento al popolo delle partite Iva, nel film...
«Erano persone che si erano messe in proprio col sogno del self made man. Adesso, al vento della crisi, c'è l'idea del ritornare a casa. Berlusconi non è stato certo sconfitto dalla sinistra o per via giudiziaria. L'ha sconfitto Papa Francesco».
Dice?
«Vedo un certo ritorno al bene spirituale. Se non altro la gente comincia a capire che la corsa all'oro è finita».
Ma nel film non c'è traccia di satira, sociale, politica...
«Non mi piace la satira perché chi la fa si sente superiore alle persone che prende di mira. Sono cresciuto con un'idea di comico quasi come vergogna: avere un comico in famiglia era una cosa rivoltante: per me la comicità è contro ogni forma di potere, anche quello della satira».
La satira è un potere. La morale è un potere?
«Certo. La volontà di migliorare il prossimo è una malattia affliggente. Ogni volta che c'è Ballarò, o qualche trasmissione del genere, c'è qualcuno che si arroga il diritto di raccontare qualcosa da un livello superiore».
E invece?
«E invece sono cresciuto con la scuola di Maurice Blanchot: il disastro, l'immediato, deve tenere lontana la padronanza di sé. Nulla deve rimanere a te, nulla devi portarti a casa quando racconti qualcosa o qualcuno. Nel pensiero dominante la grande rivoluzione del pensiero di gente come Gilles Deleuze si è trasformata in un qualcosa di molto blando. Un'idea di impegno in fondo classista».
Non ama il cinema d'autore?
«Sono contro quelli che vogliono insegnare a pensare e a comportarsi al prossimo. Io non sono migliore di nessuno, anzi sono più ipocrita di tutti, e quando scrivo sono le mie ipocrisie a parlare, non quelle degli altri. Credo che il grande problema del cinema italiano sia stata l'aggiunta, a un certo punto, della parola, culturale.
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