Non sempre, dietro le quinte, sta chi vuol nascondersi. O non meriti di apparire. Furio Scarpelli ci stava benissimo e aveva fatto suo il pensiero di un grande, Gustave Flaubert. L'autore deve tenersi un passo indietro alle storie che vuole raccontare. Non deve dar l'idea di essere esistito. È tutto nelle sue opere, che parlano per lui. E a quel principio non ha concesso deroghe. Mai. A cominciare da se stesso. Il suo biglietto da visita - se ce ne fosse bisogno - è mezzo secolo di sceneggiature della commedia all'italiana. Una filmografia, eccelsa e sterminata, che ha dato lustro al cinema di casa nostra. Da Totò le Mokò di Carlo Ludovico Bragaglia - correva l'anno del Signore 1949 - a Christine Cristina di Stefania Sandrelli nel 2010, passando attraverso titoli che hanno fatto la storia. Napoletani a Milano. I soliti ignoti. La grande guerra. Il mattatore. I mostri. Tutti a casa. L'armata Brancaleone. C'eravamo tanto amati. Straziami ma di baci saziami. Il postino. E si potrebbe continuare snocciolando un capolavoro dietro l'altro.
Il 16 dicembre Furio Scarpelli avrebbe compiuto cent'anni e dai suoi cassetti continuano a spuntare inediti. Amori nel fragore della metropoli (Sellerio, pagg. 159, euro 13) raccoglie tre racconti, accompagnati dalla postfazione del figlio Giacomo, che a lungo ha affiancato il padre come sceneggiatore e oggi insegna Storia della filosofia all'Università di Modena e Reggio Emilia. «Risalgono agli anni Ottanta e hanno un'impronta comica innestata su una base drammatica», spiega. Ovvero, la cifra ideologica di Furio, convinto che in fondo «il riso fosse l'altra faccia del pianto» e «solo se si è seri si riesce a ridere». Un contrasto che profuma di ossimoro ma non lo è. La strada, per la verità, l'aveva aperta Ennio Flaiano con il suo innato sarcasmo: «Un film solo drammatico alla lunga diventa involontariamente comico».
Nel cinema di quegli anni lo scacco era tutto lì. I produttori chiedevano commedie leggere. Leggerissime. Undicesimo comandamento, mandare a casa il pubblico con il sorriso sulle labbra. Scarpelli però non ha mai sacrificato un'amara riflessione sull'altare della superficialità. E nei Soliti ignoti ci era scappato perfino il morto. Nondimeno, di quel ciclo tutti ricordano il lato scanzonato e il «m'hanno rimasto solo quei quattro cornuti», trasformato da citazione in un mantra. «Papà amava giocare con la lingua, Brancaleone è il caso esemplare» ma anche nei tre racconti freschi di stampa si nota questo gusto, che lo spinge a distorcere un detto latino, messo in bocca a una popolana ignorante che non si nega il distorto «condizio sine cannone» per darsi un tono in più.
Nulla era lasciato al caso, insomma. E spesso era frutto delle violente litigate con il suo doppio, Agenore Incrocci. Per tutti Age. Quella che oggi si definirebbe una coppia di fatto a sfondo professionale. «Non lo dica a me, in molti mi credevano figlio di Age Scarpelli perché non facevano caso al trattino. Credevano che il primo fosse il nome e l'altro il cognome. Invece erano due colleghi che si volevano un gran bene ma, come in tutte le famiglie, si aggredivano con violenza, verbale s'intende. Solo sul lavoro però. E sempre con una frase pacificatrice. Nulla di personale, si chiaro. Ma i presenti si trovavano in imbarazzo, al contrario di loro».
Gli scontri rallentavano i tempi. La puntualità nella consegna delle sceneggiature spesso andava a farsi benedire. La fretta Scarpelli non l'ha mai conosciuta in vita sua, se non quando ha incontrato Massimo Troisi. Il postino aveva un problema, non c'entrava con l'Italia. «Era una storia cilena - racconta Giacomo -. Poi papà scoprì che Neruda, negli anni '50, visse in Italia un periodo di esilio. Il gioco era fatto. Si riuscì ad ambientarlo a Capri, anche se le riprese furono fatte tra Procida e Salina. Accelerando i tempi come voleva Troisi, che non disse niente ma forse intuiva di non avere molto davanti a sé. E morì nel sonno poche ore dopo la fine delle riprese».
Furio se n'è andato nove anni fa, in un giorno di aprile. A novanta primavere suonate. Lasciando in eredità opere che il figlio - autore di narrativa investigativa con Precipitazioni abbondanti - sta ora riportando in luce. Il prossimo anno uscirà un romanzo inedito perché delle tre scrivanie su cui Furio Scarpelli lavorava - una come sceneggiatore, la seconda da disegnatore e la terza da scrittore - la preferita era proprio l'ultima.
«Se riesci a scrivere una buona storia senza pensare che esista il cinema - annotò - sei già un autore. Non ti resta che fare il passo successivo e diventare cineasta». Ma lui, alla macchina da presa non andò mai. La sua casa era dietro le quinte. E non si nascondeva. «Perché scrivere è molto più bello che girare».
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