«Ho ucciso Pulcinella!».
Eccolo Eduardo Scarpetta all'apice del successo, re della commedia napoletana agli inizi del '900 con la maschera di Felice Sciosciammocca, pronunciare la fatidica frase che ogni grande personaggio si vedrà prima o poi rivoltare contro come un boomerang. E in effetti Qui rido io di Mario Martone, scritto con Ippolita di Majo e presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia prima di uscire in sala domani, mette in scena proprio questo, la strenua lotta di un artista per rimanere sulla cresta dell'onda, anche familiare, e scoprire che da un momento all'altro tutto può crollare.
Nel suo caso la colpa è stata, come si dice, quella di fare il passo più lungo della gamba, quando s'è messo in testa di parodiare La figlia di Iorio di Gabriele D'Annunzio. Così Scarpetta, impersonato da Toni Servillo come fosse una maschera teatrale vivente nel film, in scena e fuori scena, va dal Vate, accompagnato dal suo attore spalla Gennaro Pantalena (Gianfelice Imparato), per farsi autorizzare nell'ardua impresa. L'incontro tra i due è girato da Martone riproponendo tutti gli stereotipi tramandati della figura di d'Annunzio, interpretato da Paolo Pierobon, riducendolo quindi a macchietta: «In realtà - spiega il regista - quell'incontro, con D'Annunzio, è ripreso dal punto di vista di Scarpetta che nella sua autobiografia gli dedica alcune pagine. Mi sono divertito a girarla avendo come riferimento visuale qualcosa a metà tra una striscia di Crepax e film come Totò all'inferno cioè con Toto e Peppino alla corte di D'Annunzio».
Il Vate dà un assenso verbale ma intelligentemente non firma niente di scritto. La sera del debutto al Teatro Mercadante di Napoli si scatena il putiferio fomentato da giovani poeti e drammaturghi che, più che essere vicini a d'Annunzio, in realtà volevano proprio «uccidere Scarpetta». Lo scandalo porterà lo stesso d'Annunzio a denunciarlo per plagio con tanto di processo con, da una, parte la neonata Siae con periti come Salvatore Di Giacomo e, dall'altra, l'autore napoletano con Benedetto Croce: «Sicuramente Scarpetta - dice Martone - ha peccato di hybris nella sfida con d'Annunzio. Ma lui ha un'anima napoletana, è un terrone, vedeva d'Annunzio come legato al potere».
Al di là del processo che, per la cronaca, con il coup de théâtre finale e l'arringa dello stesso Scarpetta, si risolve a suo favore, Qui rido io costruisce un monumentale e colorato - bellissima la fotografia del grande Renato Berta - quadro d'insieme di una delle famiglie più allargate di sempre. Il capofamiglia, capocomico, capotribù Scarpetta ha, infatti, uno stuolo di figli tra legittimi, naturali e pure acquisiti dalla moglie Rosa De Filippo (Maria Nazionale) che ne ha avuto uno dal Re. E praticamente tutti sono coinvolti nella compagnia teatrale con una peculiare identificazione tra arte e vita: «È il suo territorio - racconta Toni Servillo - dove detta tutte le regole. Lui va a caccia di donne, di testi da scrivere, di pubblico, del successo. Poi c'è lo sguardo disincantato dei ragazzi De Filippo che guardano il padre lavorare».
Proprio sul trio dei De Filippo, Eduardo (interpretato da Alessandro Manna), Peppino (Salvatore Battista) e Titina (Marzia Onorato), lo sguardo di Martone si poggia con grazia e curiosità svelando le antiche regole delle grandi compagnie di teatro in cui i personaggi si tramandano di padre in figlio come quello di Peppiniello di Miseria e nobiltà che, per l'età, passa di figlio in figlio, come succede con Vincenzo interpretato da un attore che porta nel nome e nel cognome la tradizione di famiglia, Eduardo Scarpetta.
«Per tutta la vita il grande Eduardo De Filippo non volle mai parlare di Scarpetta come padre ma solo come autore teatrale.
Venne intervistato poco tempo prima di morire da un amico scrittore: Ormai siamo vecchi, è il momento di poterne parlare, Scarpetta era un padre severo o un padre cattivo?. La risposta fu sempre e solo: Era un grande attore», conclude Martone felice che il film, prodotta da Indigo con Rai Cinema, sia già stato venduto negli Stati Uniti.
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