C'ho tanti di quegli aneddoti su Carmen Covito e la sua scrittura, che più ci penso e più si alimentano. Come quella volta in cui sentii dire da un giornalista: «Ma guarda che è lei la sgobbona. Quando fa le traduzioni e i libri in doppia firma con altri, il lavoro grosso lo fa lei. Poi magari l'altro ci mette il cesello..». Vero o meno, così a occhio, è una che quando scrive deve sapere sull'argomento tutto nei minimi particolari. So della sua smodata passione per il Giappone. Ha pure abitato a Tokio. In merito alla questione pensavo si fermasse al rito del tè o al sempiterno concetto del wabi-sabi. Invece mi ritrovo a sfogliare un bellissimo catalogo, curato da lei, sui Kokeshi, ossia quelle bambole in legno caratteristiche della regione del Thoku che si vedevano in certi manga di Doraemon e compagnia cantante.
Però la questione riguarda La bruttina stagionata, un libro del 1992 che mi ritrovo in doppia copia tra un mobile della libreria e l'altro. Uno penso mi sia stato regalato, l'altro invece l'avevo preso usato e c'è la firma di chi lo possedeva, «Fiorenza», scritta a penna rossa, che a ben guardare è proprio un bellissimo nome da bruttina stagionata. Una volta figure femminili come Marilina Labruna, la protagonista del romanzo, venivano chiamate nubili, signorine, poi zitelle, single, ma con la generazione PornHub sono diventate sistematicamente tutte MILF. Sdoganate del tutto coi loro baffetti neri, gli occhiali da vista e i peli superflui post-immaginario Sex & The City che, col senno di poi, pare proprio un vecchio telefilm americano. Brutta storia invece per Marilina, che in pieno edonismo reaganiano, come direbbe Dagospia, doveva subire le angherie settimanali di estetiste pronte a torturare donne somministrando colate laviche di cerette roventi e ammennicoli vari.
La Covito descrive un mondo nei minimi particolari, coi suoi sottobicchieri in finto vermeil pirografato e sogni costruiti su sfondi storicamente esatti. Una volta si sarebbe detta una scrittura brillante, in cui la commedia è a livelli molto alti. A tratti ricorda il Busi de La delfina bizantina nella sua scrittura sontuosa e nella capacità introspettiva di costruire personaggi descritti con maestosi fendenti. E la storia vuole proprio che l'immaginario di Carmen Covito fosse stato notato dall'autore di Seminario sulla gioventù. La Covito al tempo scriveva per il quotidiano Bresciaoggi. Galeotta fu un'intervista dell'autrice la cui scrittura fu notata dallo scrittore monteclarense che la fece mettere sotto contratto da Bompiani per ventidue milioni di lire (circa 11mila euro di oggi) d'anticipo e il 15% di diritti d'autore. Follie d'altri tempi.
Personaggi descritti perfettamente, in terza persona: l'amante Berto, accalappiato tramite annunci sui giornali, la madre vedova che scopre una sorta di seconda giovinezza agghindandosi con mise imbarazzanti, improbabili manzi meneghini o esotici, don Disparì, Pucci Stefanoni col suo potentissimo talento di cadere in trance, l'amica Olimpia. Una fauna vivace, movimentata come la prosa dell'autrice grazie alla quale, leggendo, è come assistere a una commedia teatrale di e con Franca Valeri e Paolo Poli redivivi. E poi c'è Marilina, sempre lì a scrivere tesi, per studenti universitari scansafatiche, sui temi più assurdi: il ricciolo biondo di Lucrezia Borgia, kamikaze giapponesi, algide muse. In lotta perpetua col suo datore di lavoro dell'agenzia Felici&Laureati.
Ma il libro della Covito a cui forse sono più legato è quello in cui lei e Aldo Busi sì, proprio quello la cui scrittura mi era venuta in mente leggendo La bruttina stagionata nel 1993 «traducono» per la Rizzoli Il Cortigiano di Baldassare Castiglione. Così, un giorno ho voluto passare a Casatico di Marcaria, dove c'è il palazzo di Baldassarre. Quel testo rinascimentale è una sorta di summa educativa in cui si insegna ai cortigiani il comportamento da tenere per ben figurare nei salotti di veri gran signori e duchesse. Del Cortigiano avevo una vecchia edizione Mursia. Leggevo un po' ma mi stufavo velocemente della prosa antica e i riferimenti, senza note, erano troppo azzardati per me. Lì a Casatico, dicevo, un piccolissimo paese di quella piatta campagna che da Mantova procede verso Cremona, c'è questa meravigliosa e cadente residenza la cui torre stellata è stata progettata da Giulio Romano per uno degli eredi di Baldassarre a evocare la torre dei Venti di Atene. A parte qualche studioso, non lo sa nessuno che lì c'è questa meraviglia. In quelli che furono i bagni dell'antica corte ci hanno ricavato l'osteria Due platani, che alla fine è un bar di paese ed è stupendo stare lì fuori a leggersi il Cortigiano. O meglio, l'edizione curata da Carmen Covito, con la trasposizione impeccabile, le note e la contestualizzazione storica: tutto ciò che serviva per farmi finalmente apprezzare al meglio l'universo attorno al Cortigiano, e quindi anche l'opera del Castiglione.
La Covito ha fatto traduzioni e trasposizioni impeccabili dal Novellino, Colette, Perrault, Hawthorne, Elizabeth Abbott Poi Enzo Siciliano ha curato un Meridiano Mondadori dedicato ai racconti di vari autori e ha incluso il suo Scheletri senza armadio tra i lavori dei più grandi del Novecento italiano. Poi Carmen Covito è sparita. Ha via via fatto perdere le sue tracce mediatiche, editoriali, s'è fatta eterea come la pittura monocromatica a inchiostro e acqua dell'Estremo Oriente.
Del perché i porcospini attraversano la strada è il suo secondo romanzo e siamo nel 1995. Stavolta c'è Arianna, bodybilder maschiaccia, e c'è Camacho, grande coreografo e danzatore. È un romanzo ballato, pieno di vertiginoso flamenco, con una scrittura narrativa dilatata come le pupille eccitate dagli eventi. Lui, Camacho, è maestro di lei. Tombeaur assoluto, si porta dietro tutte le sue amanti pur essendo sposato con la contessina. Grand tour tra Spagna, Lombardia, Emilia, Madrid, Brescia, Reggio Emilia. Il balletto dei sessi e degli accoppiamenti copre l'intera trama incastrando vari piani temporali. Questo libro è l'Harmony perfetto, quello che tutte le autrici di libri rosa vorrebbero scrivere, il romanzo che Liala avrebbe potuto ideare, se fosse nata nel 1948 e si fosse chiamata Carmen Covito.
Leggi la Covito e ti vien voglia di indagare il mondo tenebroso e languido dell'onicotecnica e farci un romanzo d'appendice della Madonna. Fatto sta che alla fine sono andato a Milano a incontrare la Covito. Sceso dalla Stazione Centrale ci siamo visti nell'atrio principale. Aveva una sottana e un golfino. Taciturna, mi parlava in modo pacato, con la sua erre arrotata e aristocratica come usa in certi campani. Siamo andati in un baretto verso Ponte Seveso. Ci siamo seduti a un tavolino nella stanzina angusta e buia di un bar con una boiserie di plastica color nocciola. Quando siamo usciti io mi guardavo attorno. Chissà come vedono i suoi occhi tutti questi bicipiti in mostra e queste gambe depilate. Chissà come vedono i suoi occhi queste insegne dei centri massaggi cinesi. A me sembra tutto sbagliato e superfluo.
Un giorno è arrivata a Mantova in treno.
Un'ora secca di presentazione libro coi suoi pantaloni neri in lana, le sue scarpe basse comode e il golfino. Poi se n'è ita e nun l'ò vista chiù. Sì Vabbè, ci siamo sentiti, ma mi ha detto sempre no a tutto. Quanto mi è simpatica la sua intelligenza!
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