È un libro assai interessante quello che lo storico francese Johann Chapoutot ha dedicato al rapporto tra il nazismo e la teoria del management tedesca sviluppatasi dopo il crollo del regime hitleriano: Nazismo e management. Liberi di obbedire (Einaudi, pagg. 128, euro 15,50). Nel volume si dà molto spazio a Reinhard Höhn (1904-2000), il quale dopo essere stato un teorico del «diritto nazista» nel dopoguerra dirigerà una scuola di management che avrà a modello la Harvard Business School e formerà centinaia di migliaia di dirigenti della nuova economia tedesca. Dopo essere stato generale delle SS ed essere sfuggito ai processi contro i crimini di guerra, a partire dal 1957 Höhn si reinventò come direttore della Deutsche Volkswirtschaftliche Gesellschaft (Società tedesca di economia) di Bad Harzburg e quindi - quale esperto nella gestione degli apparati industriali - giocando un ruolo di primo piano nello sviluppo della Germania occidentale.
Il volume di Chapoutot formula a più riprese anche tesi discutibili, che valicano le questioni storiche prese in esame. Innanzitutto, nel testo sembra emergere una sorta di legame essenziale tra la cultura del management industriale e l'ideologia nazista. Non bastasse questo in vari passaggi del testo vengono evocati i tratti vitalistici e movimentisti del regime guidato da Adolf Hitler per tracciare una relazione tra totalitarismo e antistatalismo.
Da giurista, Höhn aveva sottolineato come altri nazisti l'esigenza di porre la razza e il Führer al di sopra di ogni forma giuridica; per questo, «da suprema istanza, da organo della sovranità, lo Stato diventa il mezzo in vista di un fine, e di un fine biologico per l'esattezza: è subordinato alla razza». Sulla base di questo progetto di un superamento dello Stato qualcosa che si trova anche nella teoria marxista Chapoutot elabora la tesi di un presunto antistatalismo del nazismo.
In realtà, negli scritti di Höhn c'è semmai il primato di una comunità di sangue che deve subordinare a sé ogni altra realtà, e quindi pure lo Stato. Il partito che ha preso il controllo dell'apparato statale, senza cui non avrebbe potuto fare nulla, pone al centro la razza, la nazione, il popolo, e quindi piega le strutture giuridico-politiche ai fini di un dominio sovrano assoluto.
Parlare di antistatalismo, allora, genera solo equivoci. È però verissimo che nella logica profonda del nazismo c'è una volontà di mobilitazione generale che delinea una libertà parziale (riguardanti i mezzi) così che il procedere complessivo dell'apparato sia più impetuoso e dinamico (verso l'unico obiettivo possibile: quello definito dal Reich e dalla sua guida). Questo è il punto cruciale. In effetti il totalitarismo nazista non voleva una massa passiva di semplici esecutori (quali sono gli omuncoli che vediamo in quell'anticipazione simbolica di varie tesi hitleriane che fu il film Metropolis di Fritz Lang), ma al contrario chiedeva una vivace e originale partecipazione di soggetti chiamati a dare il loro personale contributo al trionfo della razza. Viene così rovesciata la prospettiva resa celebre da Adolf Eichmann e soprattutto dalle analisi di Hannah Arendt sulla «banalità del male», per le quale ogni individuo entro il regime doveva essere un semplice esecutore. Lo scopo è chiaramente definito, ma gli strumenti sono liberi. Ed è questa «partecipazione» attiva al sistema che rende ancora più irresistibile il progetto totalitario.
È dai suoi studi di storia militare che Höhn ricavò la nozione di «Auftragstaktik»: quella «tattica di missione» che unisce un forte controllo e un'ampia responsabilizzazione, e che era stata capace di rendere così efficiente gli eserciti germanici (prima della Prussia, poi della Germania), soprattutto in virtù di un peculiare coinvolgimento dei sottufficiali: «Da una parte, rigidità centralizzatrice nella definizione degli obiettivi e della strategia da parte del comando supremo; dall'altra, flessibilità nell'esecuzione sul terreno». Per giunta, in questi teorici nazisti c'è un'idea peculiare di libertà: tutta positiva («libertà di»), e in nulla negativa («libertà da»). Le politiche nazionalsocialiste in tema di welfare, su cui si è soffermato Götz Aly nei suoi noti studi, rispondono proprio all'esigenza di conferire una crescente «libertà materiale» (disponibilità di risorse) a quanti partecipano all'avventura di una Germania lanciata alla conquista del mondo. Per questo per Hitler fu indispensabile depredare altre popolazioni al fine di «guadagnare l'assenso e suscitare la partecipazione».
Anche alla luce di tutto ciò, ecco perché questo testo, che pure accende i riflettori su pagine poco note della storia tedesca, lascia perplessi quando individua una continuità tra gli studi manageriali in quanto tali e l'ideologia nazionalsocialista. Semmai è vero che entro ogni sistema politico da tempo si va assistendo all'affermarsi di tecnocrati e che taluni studi sull'organizzazione del lavoro sono sempre stati utilizzati dai regimi di ogni colore: così che già nel 1941 James Burnham aveva parlato dell'avvento di una società manageriale, rilevando convergenze tra l'Unione sovietica di Stalin, la Germania di Hitler e l'America di Roosevelt. Mentre Burnham fissava il proprio sguardo su come la sovranità fosse sempre più nelle mani di tecnici, Chapoutot introduce un parallelismo tra il «capo» di un regime totalitario e il «proprietario» (o un suo delegato) di un'organizzazione economica basata su contratti volontari.
Nelle stesse pagine dello storico francese, allora, troviamo proprio quell'incomprensione della libertà negativa e del liberalismo classico basato su proprietà privata e intese volontariamente sottoscritte che è stata all'origine del disastro novecentesco e che, in forme diverse, anche ora seguita a corrodere i nostri spazi di autonomia in larga parte dell'Occidente.
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