Selimovic, se il potere s'arrocca in una "fortezza"

Un'attuale riflessione sulla libertà del bosniaco che scelse di scrivere in serbo e aiutò Tito

Selimovic, se il potere s'arrocca in una "fortezza"

All'inizio della carriera universitaria presi parte con alcuni colleghi a un convegno a Sarajevo cui partecipavano storici italiani e jugoslavi. Per l'occasione fu programmata una visita a Travnik, alla casa natale di Ivo Andric (18921975), il grande diplomatico e scrittore cui nel '61 era stato conferito il Nobel per la Letteratura. Lì, nella casa-museo, comperai i suoi due più famosi romanzi, Il ponte sulla Drina e La cronaca di Travnik, che non avevo mai letto. Ne rimasi conquistato. Soprattutto mi affascinò il primo, un possente affresco di vicende che ruotavano attorno al ponte della cittadina bosniaca di Visegrad e si distendevano in un arco di tempo che va dall'inizio del '500 alla prima guerra mondiale. Fu per me la scoperta non solo di un grandissimo scrittore ma anche di una letteratura affascinante, e da noi poco conosciuta.

Andric era stato anche un diplomatico importante che negli anni Venti e Trenta aveva svolto incarichi in Vaticano e in Italia oltre che nella Germania hitleriana alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale e che aveva saputo cogliere, in alcune dense pagine saggistiche, le caratteristiche del fascismo delle origini. La grande capacità visionaria del narratore di razza si univa in Andric alla sensibilità interpretativa di uno storico di valore: una miscela che rende i suoi libri particolarmente suggestivi e suggerisce l'idea che quel «ponte sulla Drina» volesse simboleggiare la possibilità di un incontro fra culture diverse.

Lo stesso entusiasmo provato per Andric lo ebbi quando, casualmente, mi capitò fra le mani il romanzo di un altro scrittore bosniaco, Mea Selimovic (1910-82): Il derviscio e la morte. Anche questo era un racconto storico ambientato in una cittadina di provincia della Bosnia all'epoca della dominazione turca, che però finiva per diventare una riflessione sul potere, sulla colpa individuale e collettiva, sulla fragilità delle certezze religiose, ideologiche e politiche. Anche quella di Selimovic, come quella di Andric, era una scrittura affascinante, possente ma semplice al tempo stesso e capace di trasformare il racconto in una metafora esistenziale e storica.

Mi sembrò subito che tra Andric e Selimovic si potesse stabilire un collegamento. I due erano, più o meno contemporanei, anche se Andric contava una decina di anni più di Selimovic, entrambi erano bosniaci ed entrambi erano diventati icone della nuova Jugoslavia di Tito optando, in certo senso, per la letteratura serba. Andric, che pure aveva fatto parte della «Giovane Bosnia» responsabile dell'attentato a Francesco Ferdinando, aveva scelto di scrivere in serbo. Selimovic, dal canto suo, aveva fatto una scelta ben più esplicita, come si evince da una lettera all'Accademia serba di scienze e arti: «Io provengo da una famiglia musulmana della Bosnia, ma per nazionalità sono serbo. Appartengo alla letteratura serba, mentre considero la creazione letteraria della Bosnia ed Erzegovina, cui pure appartengo, soltanto come un nucleo originario e non già come una specifica letteratura di lingua serbocroata».

Entrambi, poi, avevano partecipato in qualche misura alla costruzione della nuova Jugoslavia di Tito. Andric nel secondo dopoguerra era diventato deputato e aveva ricoperto incarichi pubblici di primo piano. Selimovic aveva militato, come del resto i suoi fratelli, nelle file dei partigiani comunisti e, al pari di Andric, era diventato nel dopoguerra uno scrittore celebre che, però, alla carriera politica aveva preferito quella accademica diventando professore di Teoria della letteratura all'Università di Sarajevo.

Che sia presente una forte influenza di Andric nella produzione letteraria di Selimovic non v'è dubbio, sia per quanto riguarda la predilezione loro per il romanzo «storico» sia anche per la somiglianza della struttura narrativa dei loro lavori maggiori. Tuttavia, in Selimovic, che pure è sempre uno scrittore organico al regime, si avverte come una sorta di rassegnata acquiescenza al destino e alla forza costrittiva del potere politico, una inquietudine esistenziale che non è capace di fare il passo decisivo verso la dissensione o verso la rivolta. Anche se, ad onor del vero, non mancò di far sentire in qualche occasione una voce polemica nei confronti del conformismo ideologico e culturale degli intellettuali. Quel suo rapporto, così psicologicamente problematico, con il regime, nel quale pure crede, trova una spiegazione nella tragica vicenda, da lui metaforicamente trasposta nel romanzo iniziale Il derviscio e la morte, del fratello giustiziato dai suoi stessi compagni comunisti.

Il peso di una riflessione filosofica sul tema della incomprensione fra gli uomini, del rapporto fra individuo e potere, tra amore e speranza si ritrova anche in uno dei romanzi più belli e intensi di Selimovic: La fortezza (Besa editrice, pagg. 420, euro 25) ora riproposto in italiano con una bella presentazione di Predrag Matvejevic che, da studente universitario, aveva conosciuto e frequentato l'autore. Scritto nel 1970, il romanzo si svolge nella Sarajevo del '700, all'epoca delle guerre russo-turche, in un momento in cui il colosso dell'impero ottomano comincia a manifestare le sue crepe. Protagonista è un giovane reduce musulmano, Ahmet Sabo, mite e moralmente integro, il quale, dopo otto anni di guerra sul Dnster, torna a casa e trova la sua città divenuta teatro di epidemie e di violenze che hanno sterminato la sua famiglia. Alle incursioni e rapine dei briganti che attaccano Sarajevo dall'esterno si aggiunge la brutalità di un potere arbitrario esercitato da una classe dirigente composta di uomini crudeli e da oscuri dignitari che decidono della sorte degli oppositori e che si riuniscono nella spettrale fortezza che dà il titolo al romanzo. Il protagonista finisce per accettare questa situazione sottomettendosi al potere, rinunciando a ogni velleità di reazione ma continuando ad avere fiducia nella giustizia. Anche perché è consapevole che ogni ideologia, come pure ogni Stato e ogni comunità, costituiscono una fortezza.

È un romanzo per certi aspetto sconsolato e pessimista, ma è un romanzo possente, scritto con uno stile coinvolgente che fa largo uso della forma dialogica. Ma è soprattutto un romanzo che fa riflettere sulla condizione esistenziale dell'individuo nei confronti del potere.

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