«Mio papà era un artista libero, un cane sciolto tra i cantautori». Claudia parla di Sergio Endrigo con la commozione dolente di una figlia davanti all'opera del padre che ha reso grande la nostra musica popolare e che oggi è meno celebrato di quanto meriti. Artista puro, Sergio Endrigo, spirito eclettico e mai esibizionista, capace di vincere Festival di Sanremo e convincere il grande pubblico registrando dischi con Ungaretti oppure canzoni per bambini in collaborazione con Gianni Rodari. «In casa non parlava mai del suo lavoro, diceva di fare un mestiere come un altro», spiega la figlia. Eppure Endrigo, classe 1933, morto nel 2005, è uno dei padri della nostra canzone d'autore. Un talento fin troppo eclettico per poter essere catalogato ma così grande da meritare una riscoperta come si deve.
Dopotutto, cara Claudia Endrigo, suo papà ha vissuto una vita da romanzo: profugo, povero, poi celebre e decisivo.
«Ma del tragico esodo dalla sua Pola si accorse soltanto dopo. Allora era troppo giovane, non era neppure un ragazzino. Aveva preso coscienza del dramma dei 350mila profughi istriani soltanto dopo molti anni e infatti scrisse il brano 1947 pensando a sua mamma e agli anziani che erano stati costretti a lasciare la loro terra. Per fortuna, a differenza di tantissimi altri, non visse mai in un campo profughi. Però si sentiva un albero senza radici».
Passò da Brindisi e poi arrivo a Venezia.
«Lì fece anche il fattorino all'Excelsior e poi al Danieli. La sua carriera iniziò in modo molto casuale».
Ossia?
«Qualche musicista gli chiese di andare a cantare con loro. Accettò, andò tutto bene e scoprì che la paga era molto alta rispetto al suo piccolo stipendio. Perciò, scherzosamente, diceva che aveva fatto una scelta per motivi artistici».
Però fece molta gavetta.
«Tanti anni di night. Poi incontrò Nanni Ricordi, un talent scout come non ce ne sono più. Rimasero in contatto tutta la vita».
Nel 1962 il primo grande successo: Io che amo solo te (dopo la cantarono in tanti, dalla Vanoni a Jannacci alla Pavone).
«Quel brano gli fece raggiungere la popolarità. Ma non gli cambiò la vita. A mio papà non piaceva esibire, non aveva bisogno di accumulare beni materiali, non è mai stato quello che voleva l'ultimo modello di Mercedes».
Nel 1968 vinse Sanremo. Qualcuno disse che fu una sorta di risarcimento ai cantautori dopo il suicidio di Tenco dell'anno prima.
«Mah, sono ricostruzioni che mi sembrano davvero infondate. Oltretutto arrivò secondo nel 1969 e terzo nel 1970 con L'Arca di Noè insieme con Iva Zanicchi. Una tripletta ineguagliata. Tra l'altro lui era molto distaccato da queste competizioni. Pensi che, a quanto pare, lui era al Casino quando gli comunicarono la vittoria al Festival».
Il prossimo anno sarà mezzo secolo esatto dal suo primo posto. Forse il Festival dovrebbe ricordarlo, visto che finora non l'ha mai fatto.
«Ci ho pensato subito. Mio papà merita di essere celebrato: uno dei suoi grandi crucci era di non aver mai ricevuto un premio. Ed è anche per questo che ho scritto la sua prima biografia».
Come mai adesso?
«Io sono l'ultima Endrigo e dopo la sua scomparsa è come se fosse morto anche un pezzo di me: solo io potevo raccontarlo a chi lo ascolterà in futuro. Il libro uscirà per Feltrinelli tra qualche mese. Il titolo ancora non è confermato, ma la copertina è bellissima».
A Sergio Endrigo non è mai stata riservata neanche una pubblicazione discografica all'altezza, una sorta di opera omnia ristampata con tanto di booklet e discografia all'altezza.
«Nemmeno io credevo che mio padre fosse ancora così seguito e amato dal pubblico. Me ne accorgo leggendo i messaggi che mi arrivano».
Partecipò a nove Festival.
«Nel 1986 non stava bene, aveva un problema all'udito e non cantò bene. Ma ricordo la sua gioia quando Bonolis lo chiamò per l'edizione del 2005: fu la sua ultima apparizione televisiva».
Perciò
il prossimo Sanremo dovrebbe celebrarlo.«Sarebbe davvero un mio sogno che si riaccendano le luci della ribalta su di lui e che il Festival, cui ha dato tanto, lo ricordasse con un grande medley dei suoi successi».
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