Poi è il palco a far comunque la differenza. E si è visto anche ieri sera mentre i 26 Big hanno provato uno dopo l'altro nell'estenuante maratona a porte chiuse dell'Ariston. Intanto attenzione perché l'effetto del palco sarà della serie mai visto prima: al posto del pubblico c'è in sostanza l'orchestra che occupa parte della platea e colma, non solo idealmente, il vuoto in sala. Oggettivamente, un prodigio dello scenografo Gaetano Castelli e di sua figlia Chiara. E prodigiose sono state anche le variazioni di tante canzoni che, da stasera, iniziano a giocarsi il Festival più strano di sempre.
Ad esempio i Maneskin, che hanno un pezzo robusto dai suoni vintage, durante le prove sembravano una band rock nel soundcheck di un megafestival open air, con l'ossessionante controllo della batteria, una chitarra dal riff graffiante come ai bei tempi e versi quasi punk: «Vi conviene toccarvi i coglioni» oppure «Siamo fuori di testa ma diversi da loro».
Senza dubbio fuori di testa (leggasi «geniale») è Max Gazzè, uno che rende letteratura anche uno scioglilingua e arriva sul palco con una band di «cartonati» con il volto della Regina Elisabetta alla batteria, Igor (del film Frankenstein Junior) alle tastiere, Marilyn Monroe ai cori, Jimi Hendrix ovviamente alla chitarra e Paul McCartney ovviamente al basso: è la Trifluoperazina Monstery Band che, forse, nell'ultima sera apparirà in carne e ossa per eseguire Il farmacista. Lui il palco se lo mangia, così come Arisa che qui arriva con una ballatona (scritta da Gigi D'Alessio) che l'orchestra esalta fino in fondo: occhio che Potevi fare di più merita il podio. Insomma a Sanremo quest'anno non va in onda una foto esatta della musica che gira intorno. Andrà in scena una vera gara generazionale. Uno come Francesco Renga non ha una canzone fortissima ma sta sul palco da maestro. In una edizione senza pubblico, l'equilibrio tra cantante e orchestra è fondamentale e fa la differenza. C'è chi come Malika Ayane (ieri sul palco con un basco alla Montparnasse) si trova benissimo. E chi, come Colapesce e Dimartino (favoriti dalla classifica Sisal Matchpoint), ha forse il pezzo migliore ma paga qualche incertezza nel confronto con i roboanti maestri dell'orchestra. Uno dei versi della loro Musica leggerissima è «metti un po' di musica leggera perché ho voglia di niente» ed è uno dei «claim» di questa edizione: la fuga dall'incubo, il bisogno di leggerezza. Pure Bugo è sembrato un po' spaurito mentre rimbombavano gli strumenti, ma questa è la sua forza.
E se Ermal Meta dà la sensazione di essere perfettamente a proprio agio (la gavetta, quando è stata lunga e sofferta, aiuta sempre), c'è chi, come Ghemon, tira fuori una classe da performer di lungo corso e anche, diciamolo da cantautore di razza: la sua Momento perfetto piacerà, e molto. Idem per Gaia, una che potrebbe andare molto lontano qui con Cuore amaro che sa di saudade e bei pensieri: ogni volta è più convinta e convincente.
Per capirci il Festival numero 71 è una vera roulette del pop: difficile scommettere sul numero vincente. Ma anche le prove di ieri sera, da Fulminacci, in giacca rossa ma senza altri colori accesi, fino a Michielin e Fedez, molto concentrati su di un brano che piace ogni volta di più, sono state il riassunto di cosa riserverà questo Sanremo: un confronto tra due generazioni e due modi di intendere la canzone popolare. Se Orietta Berti è una «fuori quota», la gara è tra chi, come il bravissimo Aiello, porta un nuovo cantautorato sofferto e attuale, e chi come Madame (ieri elegantissima) spariglia completamente le carte in tavola andando addirittura oltre la trap. Poi c'è la classe.
Ad esempio Noemi, davvero brava in Glicine specialmente sul palco con una consapevolezza mai avuta prima, e Annalisa, eterea ma incandescente. Nell'anno del «silenzio in sala» vincerà la giovanissima sorpresa oppure l'artista consacrato ma non ancora «venerabile maestro». E, comunque andrà, sarà un successo (la qualità c'è, inutile negarlo).
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