"Sono sempre stato fedele alla follia e alla passione"

Il regista Tinto Brass pubblica un romanzo che nasce dalle proprie memorie: "Mio padre mi mise in manicomio per abituarmi all'esistenza"

"Sono sempre stato fedele alla follia e alla passione"

Il sigaro, il cappello, gli occhietti. Davanti a tante manifestazioni dell'immaginario pop, che radunano i desideri, i pourparler, fino alle polemiche politiche di tono serio(so), è facile immaginare una figura ispiratrice. Il totemico sedere di Kim Kardashian sulla copertina di Paper; il twerking di Miley Cyrus sui palchi di mezzo mondo; perfino le gesta di Paola Bacchiddu che mesi or sono espose il lato b per la lista Tsipras, sotto sotto fanno sempre pensare a lui. Il sigaro, il cappello, gli occhietti. Tinto Brass. Lui che aveva previsto-prefigurato-prefilmato tutto. Il lato b. il Sedere. La nuova origine del mondo, slegata dalla naturalità di quella di Courbet. «Anche il seno» racconta Brass «al di là del possibile paragone con Fellini, è collegato con la maternità, ha legami con Freud, eccetera. Il culo, invece, è assolutamente libero, il culo è olio essenziale di erotismo».

Ottantuno anni, cinquanta di film. Una prima parte della carriera dedicata al cinema impegnato e una seconda a quello erotico. Tinto Brass torna, ma questa volta con un libro. Madame Pipì (Bompiani, pagg. 140, euro 13) scritto in collaborazione con la sua musa e consigliera, la psicanalista Caterina Varzi. «La storia è diversa dai suoi tipici soggetti erotici» spiega la Varzi. «È più ruvida, più inquietante. Deriva da un caso di cronaca parigina degli anni 60, che poi è stato ampliato e ripreso. Nel '72 se ne doveva fare anche un film con Macha Méril, ma i produttori non gradivano una vicenda così forte. Mi è capitata sottomano quando, dopo l'emorragia cerebrale del 2010, ho aiutato Tinto a recuperare la memoria. Leggendogli brani del suo archivio». Una madre, custode in una toilette parigina, un figlio con problemi psichiatrici. E uno psichiatra che con la donna intesse una relazione tutta sopraffazione.

Brass, il tema della follia fa pensare a un legame almeno con altri due suoi film, Dropout (1970) e La Vacanza (1971)...

«Sono sempre rimasto legato a questo tipo di temi. In particolare il bambino con problemi, che cercava una liberazione delle sue condizioni di vita. Solo che in questo caso ho cercato di portare questa storia alle estreme conseguenze».

Ma è un discorso che deriva anche da una sua esperienza personale.

«Da ragazzino sono andato al manicomio a San Clemente, a Venezia. Solo per due o tre giorni. Mio padre mi ci fece chiudere dentro per “abituarmi alla vita”, diciamo così. Era una punizione amichevole, e capisco perché l'ha fatto...

Ha detto «mio padre era un fascista, ma la nostra era una famiglia libertaria». Cosa vuol dire?

«Era un uomo molto libero dai pregiudizi, molto onesto. Il nostro è stato un conflitto leale. Di reciproco rispetto. Non ho avuto il tempo di spiegargli la mia storia, con tutti i particolari, è morto prima, purtroppo».

Lei è sempre stato uno a cui non piaceva adattarsi. Quando ha fatto In capo al mondo nel '63, dopo i problemi con la censura, ha cambiato il titolo al film in uno ancora più aggressivo: Chi lavora è perduto.

«Sono stato sempre un po' così. E con il tempo ho cercato di trasformare questo mio atteggiamento personale in una posizione politica, di critica alla società. Prima attraverso film politici, poi attraverso l'erotismo»

Però, dopo tanti film che hanno innescato scandalo, ha detto che la vera trasgressione oggi è l'amore...

«Anche la vicenda di Madame Pipì in fondo è una storia d'amore, amore di una madre per un figlio. Ma le dirò, in fondo sono stato un tipo fedele».

Fedele?

«Innanzitutto agli amici. I ragazzi veneziani con cui mi sono trovato per tutta la vita. E poi a tanti altri amici di sempre: Michelangelo Antonioni, per esempio, con cui si passavano tutte le domeniche a parlare, a mangiare, a giocare a ping pong».

E poi?

«A mia moglie Carla, detta “Tinta”. Nei centinaia di tradimenti sono rimasto fedele. Mi sono sempre rimesso alle circostanze. Una volta, ebbi un'avventura con un'attrice. La andai a trovare a Torino. Tinta, sapendolo, reagì con un: “io vado a Parigi”. Dopo tre giorni la raggiunsi a Parigi. Lei quando mi vide telefonò a questa attrice: “Prima ti sei divertita tu, adesso mi diverto io”».

Ha sempre detto di non sopportare il mix di erotismo e riflessione.

«Come diceva Giacomo Casanova: “il cazzo non vuole pensieri”, ed è anche la mia definizione di rapporto erotico, un rapporto felice».

Attrici più difficili da dirigere nelle scene più «scoperte»?

«Maria Schneider. In Caligola non si voleva spogliare, non voleva restare nuda sotto alle due stole. Una fatica, una sofferenza. Le dissi: quella è la porta, puoi andartene. Alla fine ho preso Teresa Ann Savoy».

Invece Claudia Koll era naturalissima senza vestiti addosso. Poteva immaginare la sua conversione?

«No assolutamente. So che una volta le telefonai e lei disse che stava facendo un film con Almodóvar. Poi più niente. Prese le distanze da me, e si dedicò a cose diverse».

Il suo film migliore a suo giudizio?

«L'urlo».

Cosa ne pensa delle Femen?

«Mi lasciano indifferente. Non c'è gioia, non c'è commedia nel loro agire. Non hanno potenziale di rottura».

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