Sospettoso e misantropo. De Amicis senza "Cuore"

In una conferenza e un articolo, il grande scrittore legge le facce. Spesso ritratti di falsità e opportunismo

C'è un De Amicis per nulla deamicisiano. Ma è sempre lui, Edmondo, lo zio dell'Italia unita rimpannucciata con l'abito lungo sabaudo, il bidello onnisciente di quella scuola di vita chiamata Cuore. Quando diventi un aggettivo, agli occhi del mondo sarai sempre solo e soltanto quella cosa lì. Ciò non toglie che, grattando la superficie dell'etichetta, si possano scoprire altri aggettivi. In questo caso «sospettoso», o «asociale», o persino «misantropo», forse quello più indicato, essendo anche un sostantivo...

Qualche anno prima di veder pubblicato, nel 1886 dalla milanese Treves, il suo romanzo scolastico (nel senso di relativo alla scuola, certo, ma anche di «elementare e meccanico, legato a schemi rigidi e convenzionali», come recita il vocabolario Treccani), De Amicis ricavò, dai suoi viaggi in Francia, due raccolte di scritti: Ricordi di Parigi e Ritratti letterari. «In questi testi De Amicis si mette alla prova forgiando una tipologia di scrittura originale, che alterna e fonde la forma-intervista con la più tradizionale modalità di osservazione-descrizione, che più ci preme». Lo scrive Alberto Brambilla nella Prefazione a I misteri del volto. Tra psicologia e fisionomia (De Piante editore, pagg. 99, euro 16), un libretto in cui, appunto, in due scritti di De Amicis mai prima apparsi insieme in volume non troviamo nulla di deamicisiano, ma molto di sospettoso, asociale e misantropo. Attenzione prima di tutto al titolo scelto: Tra psicologia e fisionomia, non fisiognomica. Giusto, De Amicis non era né desiderava essere un fisiognomico, uno scienziato delle fattezze umane. A questo provvedeva già un altro torinese d'adozione, Cesare Lombroso, e i due, lo scrittore e il medico e antropologo, pare abbiano avuto soltanto una cosa in comune: la partecipazione a una serie di conferenze, nell'inverno 1880, sul «Vino», organizzate sotto la Mole da Arturo Graf.

Dunque, il primo scritto qui presentato, Osservazioni psicologiche sulle espressioni del viso, apparve in due puntate, il 7 e il 14 maggio 1881, sulla Gazzetta Letteraria ed è il testo di una conferenza tenuta al Teatro Carignano di Torino il 23 aprile 1881. De Amicis, una volta messo in chiaro che la fisiologia non gli pertiene, punta dritto sulla psicologia. Scrive: «Il nostro viso lavora e fatica incessantemente, per necessità, quanto qualunque altra parte del nostro corpo. Persino la sua espressione più naturale è quasi sempre un'arte». Ovvero: «necessità» più «arte» uguale zero sincerità. Ed ecco il «sospettoso». E, proseguendo nell'introspezione: «noi viviamo tutti in una illusione stranissima: l'illusione di esser giudicati non quali ci lasciamo indovinare, ma quali ci sforziamo di parere; e non ci accorgiamo che è appunto lo sforzo che facciamo continuamente per nascondere certi nostri sentimenti, quello che li mette più svantaggiosamente in evidenza». Ed ecco l'«asociale». Per giungere alla auto-condanna che l'uomo emette semplicemente vivendo: «Ci caliamo tutti sulla faccia, con grande cura, una visiera di cristallo limpidissimo, e pretendiamo di nasconderci e di premunirci con questa visiera». Ed ecco il «misantropo».

Il secondo scritto, La faccia, apparve su L'Illustrazione Italiana il 6 gennaio 1907. Molti anni sono passati dal primo e, come opportunamente sottolinea Brambilla, la condizione del De Amicis uomo si era pesantemente aggravata, prima per la morte della madre, poi per i contrasti con la moglie Teresa Boassi e infine, e soprattutto, per il suicidio del primogenito Furio, che nel novembre 1898 si sparò un colpo di pistola presso una panchina del parco del Valentino.

C'è quindi da capirlo se le sue parole ci ricordano quelle del vecchio e cieco monaco Jorge da Burgos in Il nome della rosa di Umberto Eco: «Che cosa singolare che la maggior deformazione del nostro aspetto sia quella prodotta dal sentimento dell'allegrezza più viva! Non sembra che la natura ci abbia voluto far comprendere che l'allegrezza soverchia disconviene alla miseria del nostro stato, che il riso è veramente quel che fu definito: una specie di vaneggiamento non durevole? Il riso smodato ci rende quasi irriconoscibili». Prima di far calare la pietra tombale sul mondo intero con una frase che non ammette repliche: «Di viso l'umanità è brutta».

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