Ci sono persone che hanno un dono dall'effetto assai benefico sugli altri: la risata esilarante, cioè la risata che, di per sé, fa ridere chi la ascolta. Se si guarda Fran Lebowitz: Una vita a New York, in onda ora su Netflix, si scopre che Martin Scorsese, regista della serie (sette puntate di mezz'oretta ciascuna) e produttore insieme all'amica Fran, è una di queste persone. Poi certo, non si ride soltanto grazie alla contagiosità di Scorsese, perché è la protagonista a metterci del suo, Fran Lebowitz appunto, di professione... diciamo scrittrice (in crisi creativa da qualche annetto), umorista, polemista, collaboratrice della prima ora di Interview, la rivista fondata da Andy Warhol e, sopra ogni cosa, newyorchese doc. Perché Fran Lebowitz, nata in una cittadina tranquilla del New Jersey nel 1950, già distesa sul suo prato di casa, verso i dodici anni, sognava di fuggire: «Dove posso andare?» si chiedeva. La risposta stava al di là dell'Hudson, nel luogo che, in qualche modo, tutti accoglie e che, paradossalmente, porta al successo più gli «stranieri» degli autoctoni. Che cosa c'è a New York, perché tanta gente ci va a vivere? Risposta: «New York. La domanda è: che cosa non c'è, dalle altre parti?». È uno dei misteri della città che Fran Lebowitz è solita attraversare con singolare attenzione: «Sono l'unica a New York a usare le strisce pedonali» sostiene, per esempio; ma è convinta anche di essere l'unica ad avere rispetto per gli altri, scansandosi quando vede arrivare qualcuno, per dire, o non fermandosi di colpo in mezzo alla strada affollata. Il titolo originale della serie, infatti, è Pretend it's a City: «Fingi che sia una città». Una città in cui «nessuno può permettersi di vivere: eppure ci viviamo in otto milioni. Come facciamo? Non si sa».
Fran Lebowitz: Una vita a New York è un tour per la Grande Mela pre pandemia, accompagnati dallo spirito caustico e non imbrigliabile di Fran, Levi's alle gambe e giacca da uomo, sigaretta immancabile fra le labbra, occhiale cascante, sorriso pronto tanto quanto la lamentela. Scorretta, disinteressata allo stile e perciò stilosissima, allergica al cellulare, colta, irascibile, insomma, un toccasana. «Mi stai chiedendo se lamentarmi cambia le cose? Se le cose di cui mi lamento sono cambiate dopo che me ne sono lamentata?» chiede Fran a Scorsese (i due chiacchierano spesso in un club dall'aria vintage). «Finora no, ma sono ancora giovane». Fran odia la folla in generale, i pedoni che la intralciano in particolare, e quelli con il cellulare più di tutti; peccato che, ormai, siano la quasi totalità di chi incontra. Se si ferma a fumare una sigaretta, c'è subito qualcuno che le chiede un'informazione. «Ho l'aria socievole, per caso?». Fran prende la metropolitana, ma non lascia mai la sua borsa incustodita, perché è una figlia della New York anni Settanta, quella violenta e punk, quando frequentava Warhol e andava ogni sera al Mercer Club a sentire i New York Dolls, finché un pomeriggio l'intero edificio che ospitava il locale crollò, lasciando quattro vittime fra le macerie, e anche lì nessuno fece una piega: «Il Mercer è crollato, ci dissero. Ah. E andammo avanti». Era così, New York. Selvaggia, mica con le «sdraio» volute da Bloomberg a Times Square, il posto peggiore del mondo, secondo Fran.
Nostalgia? Ce n'è molta, nelle parole di Lebowitz e di Scorsese, per una certa città che non c'è più (pur con i suoi lati negativi: potevano distruggerti il vetro dell'auto per rubarti una mela...) e anche nel cuore di chi ascolta, per una città che oggi, come tutto il resto del mondo, è svuotata dalla pandemia. Le fosse comuni a Central Park, il silenzio delle strade durante il lockdown: di questo silenzio potrebbe parlare Fran, magari nella prossima stagione, come della «terza volta» che ha sentito la città ammutolirsi, dopo l'11 settembre e il giorno della sentenza di O.J. Simpson.
Fran Lebowitz, talentuosa e amante delle feste, amica di Toni Morrison e di Charles Mingus («mia madre lo adorava perché mangiava tanto»), che una volta le fece conoscere Duke Ellington, riconosce il potere della musica sopra ogni arte perché, dice, è la musica che ti fa esprimere le emozioni.
La musica rende le persone felici, ed è per questo che le persone amano così tanto i musicisti, a differenza degli scrittori... E l'arte? Alle aste, quando viene battuto un Picasso la gente tace; quando il quadro viene aggiudicato a qualcuno, la gente applaude. «Alla cifra, non a Picasso, capite? E vi ho detto tutto della nostra società».
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