N ell'ultimo anno sono cambiate tante cose, poiché diritti fondamentali che credevamo acquisiti ci sono stati improvvisamente sequestrati da leggi e atti amministrativi. All'origine di questa gestione dell'emergenza pandemica vi sono comunque questioni classiche, che possono essere comprese soltanto se si riflette sul senso delle istituzioni della modernità e sulle filosofie che l'hanno generata.
Per questo bene ha fatto Corrado Ocone a pubblicare un agile pamphlet (Salute o libertà: un dilemma storico-filosofico, edito da Rubbettino, pagg. 132, euro 14) nel quale ha cercato di tracciare una mappa genealogica del sistema di potere vigente e anche delle tesi che devono indurci a contrastarlo, al fine di tutelare le libertà dei singoli.
Il punto di partenza è nel pensiero di Thomas Hobbes. A metà del diciassettesimo secolo l'autore del Leviathan opponeva libertà e sicurezza, difendendo il dominio del sovrano in nome della sconfitta della paura: non già pensando al diffondersi di malattie, ma invece al terrore connesso a un'endemica lotta tra fazioni confessionali in conflitto. La necessità di rinunciare alle libertà fondamentali per sconfiggere il timore di morire è formulata con una chiarezza estrema proprio in quelle pagine. Come ricorda lo stesso Ocone, con Hobbes lo Stato moderno «non è altro che la proposta di una serie di misure per combattere la paura accrescendo la sicurezza».
È sotto gli occhi di tutti quanto quel progetto sia fallimentare. Lo Stato può anche essersi storicamente giustificato quale antidoto al panico, ma al contempo esso ha rappresentato la fonte primaria delle nostre insicurezze. Poiché ha spogliato gli uomini dei loro diritti, esso ha assunto di continuo caratteristiche irrazionali e violente, che l'hanno portato a farsi onnipresente e a minacciare in troppe circostanze la vita, la libertà e la prosperità degli uomini.
La risposta di John Locke sarà radicalmente diversa. Per l'autore dei Due trattati del governo civile quando il diritto protegge la libertà, in tal modo esso assicura anche la massima sicurezza possibile. Non c'è allora un trade-off tra libertà e sicurezza, e quindi non si deve scegliere tra diritti e ordine. Solo in una società libera è infatti possibile costruire relazioni stabili. Locke sottolinea la natura spontaneamente cooperativa degli esseri umani e oltre a ciò coglie il profondo realismo di una prospettiva coerentemente liberale che, contestando la sovranità di matrice assolutista, basa le istituzioni sul consenso, sul confronto razionale, sulla compatibilità dei progetti individuali.
Ovviamente, Hobbes e Locke usano la parola «libertà» in modo assai diverso. Per il primo essa indica la licenza assoluta, il «fare quello che si vuole», ed è per questo che nessuna libertà è compatibile con un ordine che riduca al minimo la conflittualità; a giudizio del secondo, invece, essere liberi vuol dire disporre di sé e dei propri beni, e quindi tale autonomia non comporta alcuna tensione con gli altri. Se vi è un ordinamento giuridico in grado di delineare chi è titolare di cosa, nessun conflitto può avere luogo.
In questa emergenza sanitaria tornare agli autori classici, come fa Ocone, aiuta a cogliere la natura stessa del nostro ordinamento, come s'è sviluppato nel corso dei secoli. Tanto più che alcune delle maggiori riflessioni novecentesche e contemporanee muovono proprio da quelle controversie per evidenziare che l'avvento del welfare state, prima, e il trionfo dello statalismo sanitario, ora, ha radici ben precise. Se Carl Schmitt ha richiamato l'attenzione sul rapporto tra sovranità e «stato di eccezione», Michel Foucault ha evidenziato la centralità della «biopolitica», ossia di quel dominio che il potere esercita sui corpi umani in nome della lotta alla follia, alla malattia, alla criminalità e alle devianze sessuali.
Oggi comprendiamo meglio come lo studioso francese avesse visto bene quando aveva richiamato l'attenzione sul Panopticon di Jeremy Bentham: in effetti, il carcere progettato nel 1791 dal filosofo inglese con lo scopo di permettere a un solo sorvegliante di vedere tutti i prigionieri, senza che loro si rendano conto di quando sono controllati rappresenta una formidabile metafora di quanto sta avvenendo o potrebbe avvenire. È un'immagine cruciale per cogliere questi nostri tempi sempre minacciati da di logiche totalitarie.
Oggi non è la paura di invasioni, guerre intestine o conflitti civili che offre alla classe politica una legittimazione del suo potere e le permette di estenderne il raggio d'azione. È invece il nostro timore di essere colpiti da un virus a rafforzare la posizione di quanti controllano la sala di comando.
C'è però da domandarsi, oggi come quattro o cinque secoli fa, se sia giusto sacrificare la libertà in nome della sicurezza, o se non avesse invece ragione Benjamin Franklin quando disse che «quanti abbandonerebbero la loro libertà per ottenere una temporanea sicurezza non meritano né l'una né l'altra».
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