“Pieces of a Woman” (su Netflix), autopsia emotiva di una maternità mancata

Kata Wéber e Kornél Mundruzkó esorcizzano il loro dramma privato, dando alla luce un film che deve tutto all’attrice protagonista e il cui prologo, un lunghissimo piano-sequenza, è sconvolgente

“Pieces of a Woman” (su Netflix), autopsia emotiva di una maternità mancata

Pieces of a woman”, presentato allo scorso Festival di Venezia e con Scorsese tra i produttori, è un film che racconta, con devastante autenticità, una tragedia come quella del lutto neonatale.

La storia è reale, in quanto vissuta proprio dalla coppia autrice del film: la sceneggiatrice Kata Wéber e il marito, Kornél Mundruzkó, regista ungherese al suo prima lungometraggio in inglese, attraverso l’arte, con quella che è un’opera toccante e viscerale, tentano di elaborare un trauma dandogli valenza universale.

Di sicuro, per lo spettatore sarà difficile dimenticare il potente e disturbante incipit del film, un piano sequenza lunghissimo che pone a distanza ravvicinata da una giovane donna in pieno travaglio. Lei si chiama Martha (Vanessa Kirby) e, d’accordo col compagno Sean (Shia LaBeouf), ha programmato un parto domestico. Peccato che l’ostetrica di fiducia abbia un’emergenza e quindi i due ripieghino su una sostituta che non pare all’altezza: la bambina smette di respirare subito dopo essere venuta alla luce. A seguire, il lento disfacimento della coppia, una diatriba su cosa fare dei resti della bambina e altri ostacoli al già difficile percorso di guarigione psicologica. Tra i tentativi di auto-salvataggio, c’è quello di vendicarsi dell’accaduto trascinando in tribunale chi si ritiene si sia macchiato, durante il parto, di criminale negligenza.

Si fa presto a dire che “Pieces of a woman” non racconti una storia di morte, bensì di rinascita. In verità si è talmente spossati dal violento e sconvolgente prologo (circa mezz’ora), che la comparsa dei titoli iniziali ci trova quasi anestetizzati, per difesa, e sarà difficile provare poi molto per il resto del film. Ci si sente, per reazione, ritrosi a lasciarsi coinvolgere a fondo; inoltre non aiuta che il registro inizi a virare verso un simbolismo sfacciato e quindi depotenziato.

“Pieces of a woman” è un film in cui i silenzi rimbombano, le figure coinvolte (ivi compresa la madre di Elisabeth, ebrea sopravvissuta all’Olocausto) sono sempre più distanti tra loro e lo spirito di sopravvivenza è declinato in modi talvolta antitetici.

L’autorialità europea strizza volutamente l’occhio a Hollywood, grazie alla presenza di star internazionali di evidente attrattiva commerciale. L’alchimia fra i due attori protagonisti è evidente e le interpretazioni d’intensa verosimiglianza. La Kirby, non a caso, si è meritata la Coppa Volpi a Venezia. Bravissima nel dare corpo all’annientamento che deriva da un dolore profondo come quello, sfrenato e sfibrante, che riduce in pezzi il suo personaggio nel film, l’attrice rende quasi visibili la voragine interiore e la solitudine auto-inflitta che fanno da anticamera alla lezione più preziosa: si può e si deve imparare a convivere con il dolore.

Le domande poste dal film sono tante, tra cui se esista un sollievo possibile al lutto. Quel che si evince è che sia illusorio pensare di superarlo cercando vendetta o un capro espiatorio. Esiste speranza di rinascita solo attraversando il buio e abbracciandone l’abisso. Poi, una volta toccato il fondo, la risalita passa dall’accettazione e dal perdono.

“Pieces of a woman” colpisce con violenza grazie all’intima autenticità che lo caratterizza.

Evidenzia che per quanto sia impossibile soffocare l’amore incondizionato nei confronti di qualcuno la cui assenza è fisica (ma la presenza ancora forte in noi), non ci si può condannare a un’apnea dolorosa e senza fine. Ognuno, a tempo debito, s’imbatte in una corrente ascensionale, interiore, e torna a vivere.

Da domani, 7 Gennaio, su Netflix.

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