Il "taccuino" di Longanesi che racconta la vera Italia

Dopo 42 anni torna "La sua signora", raccolta di scritti dal '47 al '57. Fulminanti e attuali

Il "taccuino" di Longanesi che racconta la vera Italia

Maestro di giornalismo, editoria e letteratura, Longanesi (30 agosto 1905, Bagnacavallo - 27 settembre 1957, Milano) svela la tragedia della "commedia nazionale".

Artista d'inarrivabile gusto pittore, incisore, artigiano armato anche di colla e forbici tra gli inchiostri di tipografia , Longanesi, che ha attraversato le cupezze del dopoguerra, abita gli anni Cinquanta d'Italia con la malia di un rabdomante. Con due secoli eletti a padrini il mai morto Ottocento e il già declinante Novecento la testa matta di Romagna, e tale resterà sempre, armato di taccuino ingaggia un duello con se stesso. Ed è questo libro La sua signora vera e propria virgola sottratta alla sua opera fatta di riviste, giornali e libri, a conferma della leggenda che lo riguarda.

Attraverso cenni, accenni e pennellate dal 1947 al 1957, sono vere e proprie note di diario Longanesi, che ha fornito alla modernità d'Italia le parole adatte, dal suo tavolo di lavoro di direttore de Il Borghese ritaglia per sé istanti tutti intimi e affronta il proprio combattimento poetico.

«Si è moderni una volta sola, caro amico» così qui si legge e Longanesi, che «dice sempre il vero, mai la verità», compare come dolente alter ego di se stesso.

Ecco cosa scrive l'11 novembre del 1954:

«Non si ha mai il coraggio di dire tutta la verità in un diario, anche se segreto. Non tanto per il timore che qualcuno ci legga, quanto per la fatica di vincere il nostro pudore e di scoprire le nostre magagne. Non ci si confessa per iscritto».

Le maniere degli antichi nel frattempo che il tempo passa cosa faranno mai? Longanesi trasfigura ciò che sta intorno a lui secondo i suggerimenti dei suoi padrini l'Ottocento dei ribelli, il Novecento de' provvisori e fa della domenica della sua vita di sognatore il giorno giusto per «lavorare anche la domenica».

Il torneo non è un incontro tra un mondo che muore e uno che si dà da fare per non morire. Longanesi erge intorno a se stesso la fortezza del proponimento borghese. L'io profondo che lo nutre disdegna lo stagno dell'angustia bottegaia archetipo del borghese, qual è, ne è l'esatto opposto e un oceano di palpitante malinconia gli dilaga in cuore, in un sarcasmo capovolto a forza di esorcismi:

«I nostri pensieri che corrono da soli in un locale notturno, mentre sediamo a tavola, in famiglia».

Il demonio da ricacciare negli inferi è la noia, una giallognola zitella con la veletta. L'eroe in guerra con se stesso affronta titani dello sbadiglio acquartierati nella giornata feriale degli sconfitti. Ed ecco: l'idea del mare non corrisponde mai al mare; i padroni guardano ai propri possedimenti con l'occhio di chi li ha rubati di fresco; i dolori di lusso recano lustro a chi li sopporta e del vecchio stile resta solo un vago cenno di signorilità:

«Un mazzo di fiori in un barattolo di pomodoro su un sepolcro».

Altro non è, questa scena, che l'apologo del decoro in dismissione: la vanitosa modestia della cerimonia degli addii in un ciuffo di crisantemi là dove fu una conserva di salsa. Quando si dice il segno. Dell'epoca, più che dei tempi.

Avvezzo alla bellezza, Longanesi ha lo stigma dell'arte: «un incidente dal quale non si esce mai illesi», dice.

La contemporaneità stringe Longanesi nell'assedio delle cose non meritate ma è tutto quello stile derivato dai nonni i morti che se ne stanno a guardarlo «col naso in giù» a vestirlo di raffinata sensibilità.

Nel volgere della primavera del 1957, in treno, Longanesi incontra «la donna più elegante dell'anno». La sua descrizione con gli occhi dei posteri, titolari della virgola è nel solco di Sexual Personae di Camille Paglia. Eccola:

«Era una monaca, tedesca, credo. Non una piega del suo abito era fuori posto; tutto in lei era misurato e aggraziato, di una eleganza che non aveva tempo. I viaggiatori nello scompartimento cessarono di discorrere ad alta voce, appena essa entrò. Si strinsero per non urtarla; non osarono sfiorarla neppure con lo sguardo. A Firenze, prima di scendere, la monaca fece un breve inchino col capo, e volò via. Quando il treno riprese a correre, i viaggiatori rimasero silenziosi; il posto lasciato dalla monaca era vuoto, ma era rimasta l'immagine di lei; e tutti ne sentivano ancora il fascino. Poi entrò una signora in pelliccia, profumata, dai grandi occhi siriaci, carica di sonore medaglie d'oro al polso. E allora l'incanto si ruppe. Si rientrava nell'ordinaria volgarità, e tutti ripresero a discorrere».

Una prosa, questa, con cui Longanesi porge ai posteri la propria sceneggiatura in forma di virgola. Serve giusto a raccontare, attraverso se stesso e il suo tempo gli anni Cinquanta dell'Italia imprecisa ma gravida d'avvenire quell'italiano dai contorni sempre troppo tormentati, tutti di estro, tutti di gran confusione in testa. E lo fa con la capacità di cogliere quel qualcosa che continua a vivere fino a noi.

Roma, per esempio. Quella che abita il taccuino di Leo Longanesi è ancora quella di oggi, Annus Domini 2017:

«Tutto sommato, l'estro di Roma è ancora tenuto in vita dalla volgarità, dalla noia e dall'indolenza della plebe. Quel suo indomabile piacere di vivere senza decoro è il solo custode del decoro cittadino».

L'Italia di appena ieri arriva oggi. Ancora:

«Quel che resta di Roma è stato difeso finora dall'indolenza, dalla scarsa

ambizione e dalla estrosa povertà del popolino che a fatica si adatta a nuovi mestieri e a nuove abitudini. E quando esso vi è costretto riesce con la propria sciatteria a trasformare in cosa vecchia tutto quel ch'è nuovo».

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