Arriva in libreria questa settimana il libro dello storico Gianni Oliva intitolato Anni di piombo e di tritolo (Mondadori, pagg. 408, euro 24): ripercorre tutto il periodo in cui in Italia ha imperversato il terrorismo ed esce poco prima del 9 maggio, giornata dedicata alle vittime della violenza di quegli anni, spesso dimenticate dai media e dalla politica. In queste settimane il Giornale ha ripetutamente insistito sul tema della necessità di rendere pubblici i documenti riservati sul terrorismo. Abbiamo fatto una chiacchierata, su quegli anni difficili e sulla loro memoria, con l'autore.
Professor Oliva lei ha vissuto di persona gli anni della contestazione. Come mai era così facile scivolare verso la Lotta armata?
«Erano anni in cui si cresceva nelle tensioni e nelle contrapposizioni ideologiche. Non c'era spazio per la via di mezzo; chi si interessava di politica - ed erano davvero tanti! - era estremista, di sinistra o di destra. C'era violenza nelle parole, negli atteggiamenti, nelle relazioni. Il confine tra la protesta e il crimine era labile, i più deboli sono scivolati verso la deriva. Prima i servizi d'ordine con le spranghe, poi gli scontri con polizia e carabinieri, poi i tafferugli con i destri o con i comunisti... Poi le pistole, i mitra, le bombe».
Cosa ha tenuto lei lontano dalla violenza?
«Io, come tanti, sono stato difeso dalla paura: paura fisica dello scontro, paura delle conseguenze, paura di perdere le mie certezze. La paura, in fondo, è un argine potente nella vita. Bisogna però avere l'onestà di ammettere che a impedirci di fare sciocchezze non è stata la consapevolezza, il ragionamento: le derive passano sempre attraverso le smagliature dell'incoscienza collettiva, e quella è stata una stagione di slogan e di schemi ripetuti senza pensare».
Quali condizioni sociali hanno alimentato la tensione dentro il Paese?
«Negli anni 50-60 c'era un'Italia bigotta, codina, rurale, che metteva in galera la Dama Bianca di Coppi per adulterio e che, ancora nel 1966 processava i ragazzi del liceo milanese Parini per un'inchiesta sui rapporti prematrimoniali; e, per contrasto, c'era l'Italia del miracolo economico, dove in tutte le case entravano il frigorifero il telefono la lavatrice, dove si compravano le Seicento, dove si scoprivano le ferie al mare. La politica non è stata capace di riformare il Paese e di modernizzarlo, e l'Italia è rimasta un Paese mancato. La grande crisi del 68-69 è figlia di questa doppia velocità, delle contraddizioni di uno sviluppo non governato».
Perché piazza Fontana è una svolta senza ritorno?
«Di fronte alla crisi sociale dell'autunno caldo c'è chi, a destra, ha pensato ad una deriva verso il comunismo e ha creduto di fermarla con l'azione destabilizzante delle bombe. Così è nata piazza Fontana: in sé essa è stata una strage gravissima, ma ciò che l'ha fatta diventare punto di non ritorno è la gestione che ne è stata fatta. La falsa pista anarchica, Pinelli morto cadendo dal quarto piano dalla Questura, i depistaggi, le ipotesi vendute per certezze, un processo infinito spostato da Milano a Catanzaro, sentenze che si smentiscono... Tutto questo ha alimentato in molti la convinzione che si trattasse di una strage di Stato, che la democrazia fosse solo apparenza, che il golpe fosse una minaccia incombente cui lavoravano insieme la destra radicale e gli apparati repressivi».
Cosa sappiamo oggi della zona grigia che ha consentito ai movimenti armati di prosperare a lungo?
«Ci sono state zone grigie a destra e a sinistra: complicità, simpatie, ammiccamenti. A destra la mancata repressione dei responsabili ha creato l'illusione di godere di appoggi assai più vasti di quelli reali; a sinistra la zona grigia ha finito per essere serbatoio di reclutamento per il partito armato».
I terroristi rossi utilizzavano armi dei partigiani. Era solo un richiamo ideale o esistevano rapporti fra alcune frange dei movimenti partigiani e i terroristi?
«Il richiamo alla Resistenza partigiana è stato costante per tutte le forze di sinistra di quel periodo. Il richiamo da parte dei terroristi è stato il più offensivo per la Resistenza: i partigiani hanno sparato in tempo di guerra nell'Italia occupata dai nazisti, i terroristi hanno ucciso in tempo di pace in un'Italia dove ognuno era libero di scrivere e dire ciò che voleva. Le Br hanno usato alcune armi provenienti dalla Seconda guerra mondiale, ma erano residuati bellici che si inceppavano subito. Probabilmente li hanno avuti per rapporti familiari o personali con qualche reduce, ma i loro arsenali erano ben altrimenti forniti. Le mitragliette Skorpion credo siano arrivate dalla Stasi attraverso la Raf tedesca; le pistole dalla malavita o da rapine in armerie».
C'erano frange del Pci che avevano rapporti con i movimenti armati?
«Il Pci era considerato un nemico dal partito armato: il suo errore, semmai, è stato quello di non capire subito il fenomeno, di parlare di provocazioni. Solo dal 1975 il Pci ha preso posizione decisa riconoscendo il terrorismo rosso. Più gravi sono state le tolleranze di molti intellettuali, dalla formula assolutoria compagni che sbagliano all'ambiguità di né con lo Stato, né con le Br. E contiguità pericolose ci sono state nell'ambiente di fabbrica, nello stesso sindacato: Guido Rossa è un operaio che ha pagato con la vita per aver denunciato queste contiguità ed era stato lasciato solo nei giorni della denuncia».
In che rapporto vanno posti il terrorismo rosso e quello nero? Uno dei due ha alimentato l'altro?
«Il terrorismo, nero e rosso, è stato sconfitto quando lo Stato ha deciso di vincer la guerra dopo aver perso tante battaglie: i nuclei speciali - nel senso di specializzati - di Dalla Chiesa, la legge sul pentitismo. Più in generale, il terrorismo è stato sconfitto dalla storia. Negli anni Ottanta non c'erano più né tensioni sociali, né progetti insurrezionali, né timori di derive. Il terrorismo, nero e rosso, è il prodotto delle contraddizioni dello sviluppo italiano. Non ce n'è uno che ha provocato l'altro, o che è iniziato prima: piazza Fontana, come detto, è stata una svolta per la gestione che ne è stata fatta».
Il termine stragi di Stato ha un senso?
«Strage di Stato è stata una formula non corretta, alimentata dalla convinzione che nulla succeda senza una programmazione e una strategia a monte. Per essere strage di Stato piazza Fontana avrebbe dovuto essere seguita da movimenti nelle caserme, da interventi di politici, da prese di posizione. Nulla di tutto questo nei giorni di dicembre 1969, e nessun uomo che potesse incarnare una svolta autoritaria. Ripeto, è la gestione politica, giudiziaria e mediatica di piazza Fontana che ha alimentato la tesi della strage di Stato, e il coinvolgimento di alcuni uomini degli apparati che l'ha avallata».
Pensa che ci siano ancora documenti non resi pubblici e che dovrebbero essere messi a disposizione?
«Credo proprio di sì. Io per la mia ricostruzione mi sono basato soprattutto su fonti e verità processuali. Però è chiaro che ci sono ancora molti non detti e zone d'ombra. Ad esempio sul caso Moro. Sia chiaro, per come la vedo io il rapimento e l'uccisione sono avvenuti ad opera delle Brigate rosse. Però Craxi riuscì rapidamente ad avere un contatto coi brigatisti... Era un segretario di partito, com'è possibile che sia riuscito lui dove gli apparati dello Stato brancolavano nel buio? E poi la famosa seduta spiritica a cui partecipò Romano Prodi dove uscì il nome Gradoli? È chiaro che Prodi aveva un informatore, non ha senso che a distanza di quarant'anni non si sappia ancora esattamente come si sono svolti i fatti. Ribadisco, nessun complottismo e nessuna tesi di fanta-politica, con grandi vecchi, ma evidentemente ci sono degli episodi su cui non è stato detto e mostrato tutto».
Spesso a raccontare in pubblico quegli anni sono soprattutto i terroristi...
«Non lo trovo giusto, la sovraesposizione dei colpevoli rispetto alle
vittime la trovo sbagliatissima. Chi ha pagato ed è tornato libero è un cittadino come gli altri e va rispettato ma non è possibile che si trasformi nel narratore unico su televisione e giornali di quel periodo storico».
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