Ovunque si parla inglese e il mondo dell'arte non fa eccezioni. Una lingua sintetica, facile ed efficace che certo non contiene le sfumature dell'elegante francese e tanto meno dell'italiano. Per giunta è idioma di commercio e attualità, portato a coniare nuovi termini destinati a entrare nell'uso comune, come questo «deacessioning», difficile da pronunciare e ai limiti della cacofonia, a indicare l'ultimo fenomeno di cui si sta discutendo e di non semplice decifrazione.
Se ne parla almeno dall'autunno scorso, quando già la pandemia aveva mostrato effetti devastanti e a maggior ragione a oltre un anno di distanza. Dal marzo 2020 i musei sono rimasti più chiusi che aperti e ciò è costato carissimo in termini di economie, perché ai mancati ingressi non è corrisposta una riduzione delle spese vive. Senza contare che un'istituzione ha bisogno di soldi non solo per programmare ma anche semplicemente per pagare stipendi e bollette. Non sono bastati gli aiuti dei singoli Stati: alcuni rischiano di non aprire più, altri (soprattutto i più complessi nella gestione) sono costretti a cercare risorse all'interno - sponsor e donatori non sono percorribili a bottega serrata. Lo slogan, negli Usa, è questo: vendere, vendere, vendere.
Con «deacessioning» si intende dunque il fenomeno di mandare all'asta opere di particolare valore della collezione per risanare le casse vuote. Un processo che, fino al 2020, si poteva applicare solo al fine di comprarne altre o maggiormente significative o per colmare lacune. Ora, invece, a causa della profonda crisi il ricavato può essere impiegato nelle spese di gestione, cominciando dalla salvaguardia dei posti di lavoro.
Tra i casi più clamorosi l'Everson Museum di Syracuse nello stato di New York, ha venduto per 13 milioni di dollari il quadro Red Composition di Jackson Pollock a Christie's. Il Brooklyn Museum, lo scorso ottobre ha dato mandato a Sotheby's di alienare dodici dipinti, tra i quali Dubuffet, Mirò e Monet. Max Hollein, direttore del Metropolitan, di fronte a un deficit di 7,7 milioni di dollari, ha spiegato che «Le istituzioni americane hanno praticato deaccessioning per decenni. Siamo molto esperti nel farlo, ci crediamo e riteniamo che lo sviluppo della nostra collezione ne tragga benefici».
Sul tema il dibattito infervora, nonostante i conti in rosso non siano interpretabili più di tanto. Proprio rispetto alla cessione del Pollock si era scagliato il Wall Street Journal parlando di «vendita della propria anima». Un avvocato ha dato battaglia ai vertici del Baltimore Museum of Art bloccando la messa sul mercato di tre opere, tra cui un pezzo di Andy Warhol, sostenendo la tesi che in tal modo i musei si sarebbero presto trasformati in attività commerciali e speculatorie. Ci mancava il consueto sfondo razziale: il direttore del Baltimore ha spiegato come opportuna la necessità di vendere per riequilibrare le collezioni inserendo più artisti afroamericani, perché i musei oggi necessitano di aggiornare i propri modelli culturali rispetto al passato.
L'Europa, ci verrebbe da dire per fortuna, è più guardinga rispetto a operazioni così disinvolte. L'Inghilterra punta ancora sugli aiuti del governo per salvare la cultura (400 milioni di sterline appena stanziati in favore di musei, teatri, festival di musica e cinema). In Francia, il presidente del Centre Pompidou ha espresso parecchi dubbi rispetto al metodo americano. E in Italia? Difficile anche solo a pensarlo. Per una volta il nostro sistema così burocratizzato, tra notifiche e sovrintendenze, garantisce la salvaguardia a oltranza del museo come luogo della memoria storica, inalienabile per definizione.
Difficile dire chi ha ragione e chi torto. A far la differenza, gli americani hanno tanto pragmatismo e nessuna tradizione storica; il loro campo d'azione è concentrato sul '900 e l'ampia disponibilità sul mercato di tali autori potrebbe anche giustificare una strategia del genere. In Italia, peraltro, ci sono tanti piccoli musei pieni e zeppi (tra sale e magazzini) di opere non particolarmente significative, che non producono reddito turistico. Anche a metterle in vendita non si raggiungerebbero cifre così significative.
Proviamo piuttosto a spostare il ragionamento. Non è che i musei sono strutture troppo costose e che tali costi oggi sono comunque insostenibili? Non sarebbe opportuno allocare le risorse in maniera diversa, riducendo le spese vive e investendo in programmazione e comunicazione? Si illude chi pensa a soggetti immutabili nel tempo. Ciò che funzionava un secolo fa o negli anni '60 ha periodicamente bisogno di essere ripensato per una maggior fruibilità. Il che non significa certo liberarsi di Warhol per accontentare i fanatici del Black Lives Matter, ma forse è possibile sacrificare qualcosa per anticipare il museo del futuro, che nel frattempo è già arrivato.
Chi arriva primo a questa sfida sarà anche il primo a rivedere fluire i soldi in cassa, torneranno i finanziatori privati e a quel punto potrà ricominciare a comprare arte. E chi si ostina a rimanere indietro, arroccato sulle proprie posizioni, rischia davvero di non farcela.
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