Tolkien, il "prof" appassionato di fantastico che trasformò un hobby in hobbit

La sua opera è frutto del talento narrativo e di un profondo studio del Medioevo

Tolkien, il "prof" appassionato di fantastico che trasformò un hobby in hobbit

Tolkien, il professore che amava draghi, elfi, hobbit e alberi parlanti, forgiò lingue e mitologie all'interno di un universo cosmogonico di cui fu geniale subcreatore. Produzione narrativa che fu, solo in parte, incantevole frutto di un talento, mentre molto doveva ad una maturata tecnicalità da esperto filologo che attingeva alle più svariate fonti letterarie.

Non sono mancate corruzioni interpretative e contaminazioni tanto che il carico ostativo nei suoi confronti fu posto sin dall'inizio. In primo luogo, per un preconcetto della critica verso la letteratura fantastica. Gravarono, poi, anche forti pregiudizi sulla triade che fece conoscere Il Signore degli anelli in Italia (Alfredo Cattabiani che la scelse, Quirino Principe che la curò e Elémire Zolla che fece l'introduzione). Infine, a chiudere il cerchio, proprio quei valori di riferimento che nella sua opera mai navigano sotto traccia. Una miscela esplosiva che, peraltro, giunge ai nostri giorni e porta a soppiantare la storica traduzione di Vittoria Alliata con bizzarre riletture.

Ecco perché non dovremmo mai allontanarci da taluni parametri prima di avventurarci in ogni recensione, traduzione, commento o lettura di un suo scritto dal momento che, come scrive Gianfranco de Turris, abbiamo di fronte un «conservatore, cattolico tradizionalista, antimoderno al punto tale da preferire i fulmini ai lampioni, i cavalli alle automobili, che ha insegnato a diverse generazioni ad amare il Medioevo e il fantastico e a non considerarli entrambi come qualcosa di negativo, di cui vergognarsi o addirittura di pericoloso».

Allontanarci da questo quadro d'insieme, alterarlo o addirittura eluderlo, significa adagiarsi in una cattiva interpretazione. Perché il punto è tutto qui. Basta rileggersi Il medioevo e il fantastico che Bompiani manda in stampa in una nuova edizione. Sette saggi originariamente scritti per conferenze fra il 1931 e il 1959, raccolti dal figlio Christopher, e ora con una rinnovata introduzione di De Turris, che agevolano il nostro viaggio nell'intricata rete dei rimandi letterari.

In Tradurre Beowulf, il secondo di questi saggi, motiva obiezioni pesanti contro «una critica precotta e opinioni letterarie predigerite». Contro esperti che ritengono bizzarrie le magie e i mostri, mentre il Beowulf è «il poema di un uomo colto che scriveva dei tempi antichi, il quale, volgendosi indietro, trovava in essi qualcosa di permanente e di simbolico». Lo stesso in Galvano e il Cavaliere Verde, terzo saggio, dove si sofferma sul «senso religioso e morale del poema». Oppure in Un vizio segreto e in Inglese Gallese dove spiega quanto la creazione di lingue inesistenti e di linguaggi immaginari possa avvalorare la necessità e l'efficacia delle specificità identitarie. Certo, un hobby improduttivo «che non gode di grande popolarità presso le masse o il mercato» ma che alimenta, seppur artificiosamente, le tradizioni culturali che devono «essere mantenute e conservate dalle diversità linguistiche perché la lingua è il differenziatore primario dei popoli». E infatti, mai si rassegnò alla prevaricazione dell'inglese sulle altre lingue.

Ma è il saggio Sulle fiabe ad entrare nello specifico della sua poetica, a

spiegare l'importanza della fantasia e a smontare, uno ad uno, tutti i cliché sulla sua opera. Settanta pagine in cui ridisegna, con sovrabbondanza di particolari, la cornice interpretativa di tutta la sua produzione letteraria.

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