Tomaso Monicelli, il socialista che unì rivoluzione e nazione

Giornalista e collega di Mussolini, fu acceso sindacalista e poi scelse un patriottismo di stampo risorgimentale

Un grande e dimenticato critico come Giuseppe Ravegnani, in un gustoso saggio di ricordi letterari della prima metà del secolo scorso scrisse che Tomaso Monicelli (1883-1946), con Nello Quilici e Aldo Borelli, apparteneva alla schiera di quei «grandi giornalisti e grandi uomini» che avevano lasciato «il lor segno nel giornalismo italiano del primo Novecento». Anche un altro grande scrittore molto popolare ai suoi tempi, Salvator Gotta, ricordò sempre con affetto Monicelli il quale, di qualche anno più anziano di lui, ne aveva ospitato i primi racconti sul giornale letterario Il Viandante da lui diretto.

Benito Mussolini, all'apice del proprio potere e quando Monicelli era ormai già caduto in disgrazia politica, confidò a un interlocutore di considerarlo «uno degli scrittori veri di questo secolo» e, riferendosi alle sue idee, disse: «non è certamente fascista» per poi aggiungere che «la sua pubblicistica, il suo far giornali nuovi» era «cultura di ottimo titolo» di cui «la cultura della rivoluzione» non aveva «motivo di dolersi».

Questa testimonianza mussoliniana risale più o meno alla metà degli anni Trenta ed è per questo assai significativa. Monicelli, infatti, a quell'epoca non era più sulla cresta dell'onda politico-giornalistica. Era stato costretto a dimettersi dalla direzione del Resto del Carlino nel gennaio del 1925, dopo aver sostenuto la necessità di «liquidare lo squadrismo» e dopo essere stato attaccato duramente dal foglio della Federazione fascista bolognese L'Assalto. Ci sarebbe, semmai, da riflettere sul fatto che Mussolini - il quale, pure, in un altro passaggio di quella stessa dichiarazione, affermò che «quel che accade nel corso di una polemica giornalistica dovrebbe avere la durata della caducità del giornale» - non abbia in seguito aiutato Monicelli a liberarsi dall'isolamento, non solo intellettuale, in cui si era trovato dopo una fase di grande successo. Ma sarebbe altro, e lungo, discorso da fare: un discorso che toccherebbe il tema del rapporto fra cultura e potere nei regimi di tipo autoritario.

Alla figura di Tomaso Monicelli ha dedicato una lunga e appassionata ricerca Franco Chiavegatti: una ricerca della quale è frutto il volume I Monicelli (Editoriale Sometti, pagg. 432, euro 20) che recita nel sottotitolo: «Storia dell'Italia del Novecento e di una famiglia della Bassa intrecciata con quella di A. Mondadori. Tomaso giornalista e scrittore i figli Mario regista e Giorgio giornalista e traduttore». Il volume parte dalla nascita di Tomaso a Ostiglia, un piccolo borgo della Bassa padana, nel 1883, e giunge fino alla Grande Guerra. È il primo tomo (il secondo uscirà a breve) di un lavoro assai più ampio, frutto di anni di ricerche in archivi privati e pubblici, di raccolta di memorie e testimonianze, di valutazione della letteratura storiografica.

Il volume, fa già ben comprendere la genesi del travagliato rapporto di Tomaso con il futuro capo del fascismo, maturato all'interno del sindacalismo rivoluzionario. Monicelli infatti iniziò la carriera giornalistica sulle pagine del settimanale Avanguardia Socialista, diretto da Arturo Labriola, dove criticava duramente i «molti don Abbondio del partito socialista», cioè gli esponenti del riformismo, da Filippo Turati a Claudio Treves, da Leonida Bissolati a Ivanoe Bonomi, favorevoli a un programma «gradualista» e parlamentare di riforme politico-sociali. E fu proprio lì che i due si incontrarono perché anche Mussolini, allora in Svizzera, iniziò a collaborare allo stesso settimanale dove, come avrebbe narrato in seguito, Monicelli teneva «cattedra di sindacalismo rivoluzionario».

Qualche tempo dopo, nel 1905, Tomaso approdò a una testata nazionale, l'Avanti!, all'epoca diretto da Enrico Ferri, rivoluzionario mantovano la cui corrente era uscita vincitrice nel congresso nazionale socialista di Bologna grazie anche all'appoggio dell'ala sindacalista rivoluzionaria. Qui egli - che pure continuò a scrivere su riviste del sindacalismo rivoluzionario come il Divenire Sociale di Enrico Leone - si fece apprezzare ed ebbe l'opportunità di conoscere altri affermati giornalisti e letterati come Ugo Ojetti, Roberto Forges Davanzati, Guelfo Civinini, Paolo Orano, Maurizio Maraviglia... Furono anni importanti che lo videro protagonista di episodi clamorosi, come un duro attacco alla «regina vedova» Margherita di Savoia, che susciterà sdegno e lo costringerà a un duello con un altro intellettuale e a una scazzottata al romano Caffè Aragno con Giuseppe Antonio Borgese.

Chiavegatti ricostruisce gli anni di lavoro all'Avanti! e segue la progressiva scoperta, da parte di Tomaso, di quel forte patriottismo risorgimentale che lo avrebbe presto portato ad approdare ai lidi del movimento nazionalista italiano. L'avvicinamento fra sindacalisti rivoluzionari e nazionalisti maturò nell'ultimo scorcio del primo decennio del Novecento, favorito da giornali come Il Tricolore di Mario Viana e La Lupa di Paolo Orano, ma anche dalla rivista Pagine Libere di Angelo Oliviero Olivetti, sulle cui colonne si sviluppò, in occasione dell'impresa di Libia, un memorabile dibattito tra favorevoli e contrari alla guerra. Fu un processo di maturazione stimolato dagli scritti del francese Georges Valois, ma anche dalla singolare tesi della lotta fra nazioni proletarie e nazioni ricche: una tesi elaborata da Enrico Corradini, padre del nazionalismo italiano, e frutto di una trasposizione sul terreno dei rapporti internazionali della teoria marxiana della lotta di classe, ma con una trasparente influenza di quello spirito volontaristico che permeava il discorso di Georges Sorel sui miti come strumenti catartici capaci di convogliare le energie spirituali delle masse.

Anche Monicelli si accostò al movimento nazionalista in questo periodo, grazie alle frequentazioni con Luigi Federzoni e altri intellettuali della stessa area. E contribuì alla nascita di alcune importanti testate nazionaliste, a cominciare da L'Idea Nazionale (di cui sarebbe stato anche direttore) e fu tra gli animatori della campagna a favore della guerra per la conquista della Libia. Giustamente Chiavegatti sottolinea che l'adesione di Monicelli all'impresa di Tripoli fu «il detonatore del suo passaggio alla parte nazionalista», ma altrettanto giustamente nota che egli, arrivando dal socialismo e dal sindacalismo rivoluzionario, trovò all'interno del movimento nazionalista una collocazione più prossima alla componente patriottica e risorgimentale che non a quella imperialistica.

Il volume di Chiavegatti offre una analisi approfondita anche dell'attività letteraria, di scrittore e commediografo di Monicelli, getta un fascio di luce sui suoi contatti con i maggiori intellettuali del tempo, a cominciare da Gabriele

d'Annunzio e ricostruisce i rapporti con Arnoldo Mondadori, che conobbe nel 1912 e che sposò una sua sorella. E, soprattutto, getta le premesse per un ulteriore approfondimento che riguarderà l'intera famiglia Monicelli.

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