Di Knut Hamsun (1859-1952), il grande scrittore norvegese, ricordavo la voce potente, di una epicità intrisa di natura e di sensazioni cosmiche in romanzi come Pan, Il risveglio della terra, Misteri, che lessi tanti anni fa. Non conoscevo le poesie, quell'unico libro intitolato Il coro selvaggio (oggi meritoriamente pubblicato dall'editore Lindau, a cura di Luca Taglianetti, pagg. 143, euro 16) che uscì per la prima volta nel 1904 e a cui poi l'autore mise mano rimaneggiandolo per decenni. In una lettera al suo traduttore tedesco, Hamsun spiega che non c'è differenza tra come lavora in poesia e come lavora in prosa: racconta di scrivere di notte, al minimo risveglio, con carta e matita sempre sul comodino, e sempre al buio. Non attribuisce un valore mistico a questo procedere, lo lega piuttosto ai tempi della sua misera giovinezza, quando non aveva neppure fonti di luce in casa. Resta che scrivere nell'oscurità rimanda a un confronto panico e onirico con la pagina, a un affidarsi al corpo e alla volontà piuttosto che alla ragione. E Knut Hamsun, in tutta la sua opera, mostra di opporsi alla falsa razionalità della vita metropolitana e industriale, senza radici, disumanizzante, in nome di valori legati alla natura, alla sua energia metamorfica, alla primavera, alla giovinezza, all'estasi.
Che la primavera suoni sulla terra, tra le prime poesie di Il coro selvaggio, è un canto trascinante, corale, in cui vediamo l'energia di festa, di amore, di germinazione della stagione primaverile, salutata dall'irradiarsi della luce e dal sole, «occhio infuocato di Dio», mentre si risvegliano gli orsi e volano le aquile sulle montagne e le gazze vicino alle fattorie. Come si legge in Notte d'autunno, lo scrittore stesso si sente crescere e germogliare nella natura, partecipare anche del più minuscolo vivente, e mai è felice come quando, steso sul dorso, nel bosco, scrive «con la scarpa/ sul cielo attraverso l'esercito di stelle». Hamsun non sottolinea i temi dell'eros, ha una visione della vita amorosa problematica, fatta di chiaroscuri. Ma, in una sezione di La mandragora, si produce in una sorprendente, bellissima riscrittura in sintesi del Cantico dei Cantici, molto aderente allo spirito, tra sensualità e allegoria, del testo biblico. Nella poesia Isola dell'arcipelago, l'approdo a un'isola utopica fiorita e dalla sabbia verde prende una dimensione fiabesca: «Il mio cuore diventa come/ un giardino da favola» e in Luogo di sepoltura l'autore, adottando i toni della preghiera, chiede di non morire nel proprio letto, ma nel bosco, «tra i suoi cespugli di mirtilli rossi». Hamsun non spinge mai così in là il suo amore per il bosco e il selvatico come in questi versi, dove fantastica di diventare cibo per i corvi, i ratti, le mosche e di avere lo scheletro scarnificato dalle aquile. Un pessimismo cupo aleggia su Tra cent'anni tutto sarà dimenticato: l'ansia, la gioia, il morire, il vivere, niente resterà.
Ma i libri restano. Il coro selvaggio sembrerebbe fuori dal tempo: ma che è del suo tempo ce lo ricorda La morte di Böcklin, poesia scritta per celebrare il pittore svizzero autore dell'Isola dei morti, e ce lo ricorda un testo come Lettera in cielo a Byron, dove Hamsun vira verso una più esplicita posizione ideologica: «La nostra vita è stata degradata dalla marmaglia operaia,/ dalla piaga degli sproloqui pacifisti,/ dall'ululato femminista». È la posizione che lo porterà ad aderire al nazismo, ad appoggiare il governo Quisling, e a pagarla nell'immediato dopoguerra con l'onta dei suoi libri bruciati sulle pubbliche piazze in tante città della Norvegia e, già quasi novantenne, con il peso di una reclusione in manicomio. Come nel caso di Pound, le democrazie vittoriose non hanno accettato che esistesse una radicale opposizione interna, più che politica estetica e spirituale, se non confinandola nell'ambito clinico, nella follia. Perché non c'è dubbio che Hamsun, come Pound, non commise nessun crimine del nazifascismo: ma non c'è dubbio che entrambi, per ragioni diverse, abbiano voluto lo scontro con una democrazia intesa come dominio del denaro e della massa, come usura per Pound e come nemica del rapporto organico, cosmico tra uomo e natura per Hamsun.
Insignito nel 1920 del Premio Nobel, Hamsun ha visto la sua fama oscurarsi man mano, la maledizione della sua scelta di collaborazionista, in sé esecrabile, ha gettato ombra anche sulla sua vasta opera letteraria, sui suoi romanzi, sulla grazia musicale e goethiana dei suoi versi che si coglie anche senza conoscere il norvegese, e sulla sua stessa visione della natura, organica, cosmica, oggi in fondo più attuale e necessaria di quella di tanti altri scrittori celebrati nel canone novecentesco.
Leggo queste sue poesie e, se mi ritraggo urtato di fronte al suo urlo contro gli operai, il pacifismo, il femminismo, mi incanto, come davanti alle pagine di Lawrence, di Miller, di Giono, di fronte al suo sguardo sulla vita che rinasce palpitando di primavera, alla sua capacità di sentire la «grande musica della natura» e di farne parte, ringraziando per la gioia di essere vivo, «la più grande mai trovata/ e che mai si troverà».
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