Il più grande scrittore degli Stati Uniti d'America si tramutò nel suo personaggio più sinistro. Cominciò da Ismaele scrittore spavaldo, volto raffinato nel sale, sguardo simile all'Eden. Diventò Achab. L'insuccesso di Moby Dick, il tonfo di Pierre ingigantirono l'inquietudine di Herman Melville. Lo scrittore si diede a vagabondaggi, tra Panama e Gerusalemme; la fame lo costrinse al lavoro stabile, alle dogane di New York. In meno di vent'anni subì la morte dei figli Malcolm e Stanwix. Diventato Achab, ossessionato dalla letteratura, Melville prese a inseguire l'ennesima Balena Bianca. La poesia.
Il più grande scrittore degli Stati Uniti d'America finì con un barbone rettangolare e uno sguardo truce, come un crogiolo pieno di spade, così lo sigla una fotografia del 1885. Tre anni dopo pubblicò «privatamente, in un'edizione di 25 copie», la raccolta di poesie John Marr and Other Sailors. Nel maggio 1891, quattro mesi prima di morire, per Caxton Press, si paga altre 25 copie di una ennesima raccolta di versi, Timoleon. Nessun recensore si occupò di quelle poesie, vergate da uno scrittore infermo d'infelicità. La prima raccolta risaliva al 1866: Battle-Pieces and Aspects of the War fu pubblicato da Harper&Brothers. Il New York Nation usò il badile: «La natura non lo ha fatto poeta. Le sue pagine contengono, alla meglio, una rozza parvenza di poesia... I pensieri sono disordinati e oscuri, i sentimenti rovinati da immagini incongrue». Aveva compiuto da poco 47 anni, Melville, e si era già trasformato in Achab. Nel mezzo, tra la prima raccolta e le ultime, c'è il poema. Pazzesco. Inaudito. Clarel. L'immane «Pellegrinaggio in Terra Santa», più vasto della Divina Commedia va avanti per 18mila versi una specie di Moby Dick dove al posto dell'oceano c'è il deserto e la balena è sostituita dal Sepolcro. È il 1876, la caduta è rovinosa: «Clarel è un enigma... il lettore ne esce irrimediabilmente sconcertato» (così il New York Tribune). Il poema impossibile galvanizzò lo spirito gnostico di Elémire Zolla «fra i grandi mi tiene inesorabilmente avvinto Herman Melville» che nel 1965 ne tradusse dei brandelli (ora in catalogo Adelphi); fu Ruggero Bianchi a darne una versione completa, vent'anni fa, per Einaudi, 630 pagine, buona fortuna.
Il servizio più alto all'opera poetica di Melville, piuttosto, lo ha reso Roberto Mussapi in una antologia di genio, Poesie di guerra e di mare, del 1984, che ritorna oggi, ampliata (Mondadori, pagg. 176, euro 20). Melville funziona meglio antologizzato, con la cura di un traduttore che sappia scindere l'eccesso dal modesto, il ghigno dal canto. Alcune poesie sono quarzi neri («In ogni amaranto si annida un verme/ anche le stelle, dicono i Caldei, scompaiono/ dal firmamento e le Ande e gli Appalachi rivelano/ la rovina, prima che Adamo cadesse») che Mussapi, giustamente, avvicina a quelle di Whitman («Whitman sprigiona energia e gioia... quanto Melville ha un atteggiamento più shakespeariano, scrutatore profondo dell'uomo e del suo mistero»).
Per quest'uomo, poeta nel senso più violento del termine, fu troppo piccola la sua era, una cella il continente. «Rimasi a lungo sul confine del sogno», scrive ed è lì che continuiamo a sognare Melville, che del dorso di una balena ha fatto la sua scrivania
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